Cacciari, De Benedetti, Berlusconi. Tutte spie di Putin?

Il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi (foto Ansa)

Sulla Nuova Bussola quotidiana Eugenio Capozzi scrive: «Alzando un muro di ostilità irriducibile tra loro e la Russia, hanno spinto forse definitivamente quest’ultima verso l’orbita politica ed economica cinese, e hanno inoltre allontanato da sé anche paesi strategici e in ascesa finora amici, come India, Brasile, Turchia, Arabia Saudita, avvicinandoli a loro volta a Pechino. La preoccupazione per tale deriva emerge, a tratti, nelle prese di posizione di alcuni leader europei, come Macron, Scholz e ora anche Mario Draghi, in favore di iniziative di pace. E, negli ultimi giorni, ha prodotto i primi, timidi tentativi di dialogo tra Stati Uniti e Russia, con la telefonata del ministro della difesa americano Lloyd Austin al suo omologo Sergej Shoigu».

È molto complicato mantenere tutta la condanna necessaria all’aggressione russa all’Ucraina e insieme cercare una via di uscita che risponda alle questioni che hanno spinto Mosca a una disperazione per tanti versi autodistruttiva.

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Su Tgcom si scrive: «“Non abbiamo leader nel mondo, non abbiamo leader in Europa. Temo che questa guerra continuerà, siamo in guerra anche noi perché gli mandiamo le armi”. Lo ha detto Silvio Berlusconi. “Adesso dopo le armi leggere mi hanno detto che gli mandiamo carri armati e cannoni pesanti, lasciamo perdere, cosa significa tutto questo? Che avremmo dei forti ritorni dalle sanzioni sulla nostra economia e ci saranno danni ancora più gravi in Africa e allora è possibile che si formino delle ondate di profughi e questo è un pericolo derivante dalla guerra in Ucraina. Bisogna pensare a qualcosa di eccezionale per far smettere a Putin la guerra”, ha spiegato il leader di Forza Italia. “Un leader mondiale che doveva avvicinare Putin al tavolo della mediazione gli ha dato del criminale di guerra e ha detto che doveva andare via dal governo russo. Un altro, segretario della Nato, ha detto che l’indipendenza del Donbass non sarebbe mai riconosciuta. Capite che con queste premesse il signor Putin è lontano dal sedersi ad un tavolo”».

Berlusconi si era detto assai deluso dalla intollerabile svolta aggressiva di Vladimir Putin intrapresa con l’aggressione a Kiev. Ma da uomo concreto qual è, il presidente di Forza Italia non può non fare i conti con la situazione concreta e con i rischi che determina per il nostro paese.

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Sulla Zuppa di Porro Massimo Cacciari dice: «“Se una parte ritiene che i suoi obiettivi siano sacri e non trattabili è chiaro che continuerà la guerra. Se si chiede alla Russia di ridare indietro la Crimea, allora ci sarà solo la guerra. Si può trattare sul Donbass, con strumenti noti nel diritto internazionale, come quelli usati dall’Occidente per il Sud Tirolo. Si può chiedere a Putin di ritirarsi dal Donbass se si aprono trattative serie su quei territori che sono a stragrande maggioranza russofoni. Ma sulla Crimea non c’è la più remota possibilità di trattare”. Se invece l’obiettivo è riconquistarla, allora bisogna sconfiggere Putin. Ma non finiranno certo qui gli orrori».

Cacciari, Carlo De Benedetti, Berlusconi. Tutte spie di Putin?

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Su Startmag Pierluigi Mennitti scrive: «Cdu e Spd sono ritenuti responsabili della dipendenza energetica della Germania da Mosca, ma i socialdemocratici pagano anche l’atteggiamento del cancelliere nella crisi ucraina, ritenuto dal 59 per cento degli elettori del Nord Reno-Vestfalia esitante e indeciso. Scholz si è speso personalmente negli ultimi giorni della campagna elettorale, ma il 40 per cento degli elettori non riconosce una linea politica precisa nelle sue decisioni. Così si spiega la sconfitta dei socialdemocratici in una delle loro vecchie roccaforti, dove con il 27 per cento ottiene il peggior risultato della sua storia in questo Land. Al contrario i Verdi ritrovano vigore, sospinti dalla chiarezza della linea adottata dal partito e rappresentata dai suoi leader al governo, non a caso i ministri più amati dagli elettori: Robert Habeck all’Economia e Clima e Annalena Baerbock agli Esteri. La svolta politica della Germania nella politica di difesa, energetica e militare ha più il loro marchio che quello di Scholz. Giova il chiaro posizionamento a fianco dell’Ucraina ma anche il fatto di essere stati gli unici, negli anni passati, a contrastare la dipendenza energetica dalla Russia: unici a opporsi al Nord Stream 2, unici a indicare il rischio strategico di un legame così stretto, unici a comprendere le preoccupazioni dei paesi centro-est europei, dai polacchi ai baltici».

La condizione di guerra virtuale in cui si trova l’Europa, ben lungi da vedere un ricompattamento del Continente, vede riemergere antiche aggregazioni: un polo anseatico-tedesco-polacco, un’area mitteleuropea, movimenti nelle nazioni latine (dalla Francia all’Italia) e nei paesi balcanici dove gli slavi del Sud non sono allineati a quelli polacco-ucraini. Una situazione complicata che non può essere risolta con retorica ed elmetti, ma solo da una riflessione critica e realistica.

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Su Huffington Post Italia Angela Mauro scrive: «“Sfortunatamente oggi non è stato possibile raggiungere un accordo sul sesto pacchetto di sanzioni, che ora torna al Coreper”, il comitato degli ambasciatori degli Stati membri che si riunisce mercoledì. Al termine di quello che definisce come “uno dei più lunghi Consigli Affari esteri”, Josep Borrell allarga le braccia e si arrende all’evidenza: “C’è la solita difficoltà a raggiungere l’unanimità sull’embargo sul petrolio”».

Nel contesto su cui cerco di riflettere, Viktor Orbán non può essere rappresentato solo come un autocrate egoista e un po’ pazzo, bensì come un politico che pur con molti difetti interloquisce con tutta l’area mitteleuropea (dalla Baviera all’Austria alla stessa Repubblica Ceca).

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Su Formiche Marcello Messori dice: «Gli aumenti nei prezzi delle materie prime e in particolare dei prodotti energetici dovuti all’invasione russa dell’Ucraina, che erano già lievitati a causa delle strozzature indotte dalla pandemia, sono poco sensibili a strette monetarie, a meno che queste ultime non si traducano in severi impatti recessivi. Vedremo quindi come la Bce saprà incidere sul tasso di inflazione senza compromettere le prospettive di un’economia europea che aveva appena recuperato, in media, i livelli di attività pre-pandemici».

In una situazione nella quale l’Unione Europea ha qualche difficoltà a trovare un baricentro politico, i crescenti problemi dell’economia non saranno di aiuto.

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Su Fanpage Annalisa Girardi scrive a proposito di Elisabeth Borne, la nuova prima ministra francese proposta da Emmanuel Macron: «Arriva dall’ala sinistra della politica francese. È stata a lungo vicina agli ambienti socialisti, per poi entrare negli ultimi anni nel partito centrista fondato dal presidente francese. Un rimpasto all’interno del governo francese era ampiamente atteso in vista delle elezioni legislative che si terranno a metà giugno e gli analisti non si sono stupiti della scelta di Macron, che ha optato per una figura decisamente posizionata più a sinistra del suo predecessore, Castex. Alle presidenziali, infatti, il candidato della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon ha ottenuto moltissimi voti, piazzandosi appena dietro Macron e Marine Le Pen: in questo modo il presidente francese spererebbe di far ottenere quanti più voti possibili al suo partito, En Marche, alla prossima tornata elettorale».

Macron, dopo aver vinto contro Marine Le Pen con il voto di tanti elettori di Mélenchon, ora spera di impedire a quest’ultimo di diventare un’alternativa politica al centrismo tecnocratico di “En Marche”, nel frattempo diventata “Renaissance“. La strategia del presidente della Repubblica francese spesso appare più retorica che realistica, ma la tattica è brillante e dà qualche carta a Parigi per giocare un ruolo in Europa e nel mondo.

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Sul Sussidiario Stefano Bressani scrive: «Auspicando che Draghi rimanga “in servizio effettivo” fino all’ultimo giorno, Monti e Messina paiono guardare a uno scenario indubbiamente diverso: quello in cui l’ultimo scorcio di legislatura consentirebbe al “vero Draghi” di esprimersi e affermare il suo riformismo economico-sociale contro il partitismo. Neppure troppo nell’implicito, una sorta di Draghi 2 viene proiettato oltre la scadenza elettorale, depotenziando in parte l’esito della consultazione democratica e allungando la fase istituzionale (in parallelo con la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale)».

Di Mario Monti si è misurata tutta l’incapacità politica una decina di anni fa, mentre Carlo Messina è un capo d’Intesa di un ben altro spessore, anche se non privo del difetto di fondo di un’ampia area dell’establishment italiano: la non capacità di affrontare le crisi facendo contare la volontà dei cittadini.

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Su Affaritaliani si scrive: «“Se ci fosse una crisi ora si andrebbe alle urne”, sottolinea Letta: “Ma arriveremo fino alla fine perché il paese ha bisogno delle riforme chieste per il Pnrr, le abbiamo promesse”. Una linea che contrasta con i continui distinguo di Conte e dei suoi. Anche oggi, il presidente del M5s non ha mancato d’inviare un segnale al governo: “C’è una misura a me molto cara per il Mezzogiorno, da rendere strutturale, che invece è in scadenza: la decontribuzione per il Sud. Vorrei sapere il governo cosa ne pensa”».

Enrico Letta è tanto carino, preparato e intelligente quanto politicamente inconsistente. Giuseppe Conte è una ridicola invenzione. Mario Draghi fa quanto può il parafulmine in una situazione che ci vede sempre sulla difensiva, ma finché la nostra politica non sarà rilegittimata dal voto dei cittadini, l’Italia non conterà sulle scene internazionali.

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