Andare a scuola in Nigeria col terrore di Boko Haram. Storia di Godiya, che non vuole darla vinta ai terroristi

La sorella di una delle 276 ragazze rapite a Chibok ha cercato fondi per farle studiare gratuitamente. Nonostante il timore di ritorsioni da parte dei jiahdisti

Quando i terroristi islamici di Boko Haram le hanno svegliate di notte, prelevate dal dormitorio della scuola di Chibok e caricate su un camion, le hanno avvertite di non provare a scappare. «Altrimenti vi uccidiamo». Asabe e Ruth, sorelle, hanno deciso di rischiare e, saltate giù dal camion, hanno cominciato a correre senza voltarsi indietro. Così le due sorelle, rapite il 14 aprile insieme ad altre 276 ragazze nigeriane, si sono salvate da Boko Haram, che non ha mai liberato le altre 219.

EVITARE LA SCUOLA. Da quel giorno Asabe e Ruth, come tanti altri studenti, hanno imparato a stare alla larga dalla scuola, considerata dai jihadisti il malvagio veicolo di valori occidentali “haram”, vietati. Hanno anche imparato a dormire nella boscaglia, per evitare eventuali attacchi di Boko Haram. Almeno fino a quando non hanno incontrato Godiya, donna di 27 anni, che ha proposto loro di frequentare gratuitamente l’Università americana della Nigeria a Yola, capitale dello Stato settentrionale di Adamawa, 270 chilometri a sud di Chibok.

LA SORELLA RAPITA. La sorella di Godiya è tra le 57 ragazze rapite a Chibok e riuscite a scappare (foto in alto). Se lei si prende «il rischio di diventare un obiettivo per Boko Haram, aiutando le ragazze a tornare a scuola», è perché non vuole darla vinta ai terroristi. Tornata con la sua famiglia nel villaggio natale di Chibok dopo che il padre, poliziotto, sfuggì per miracolo nel 2004 a un attentato, si trovava a Yola all’Università americana della Nigeria per lavoro quando sua sorella è stata rapita dai jihadisti.

«BASTA CON LA SCUOLA». Quando la sorella, miracolosamente, tornò a casa, il padre disse a Godiya: «È la seconda volta che bruciano la scuola di tua sorella. Non ho nessuna intenzione di mandarla a scuola di nuovo». È allora che Godiya decise di fare qualcosa e, d’accordo con i suoi superiori, ha messo in piedi una fondazione raccogliendo 50 mila dollari in donazioni per far studiare 10 ragazze nell’ateneo. Non avrebbe mai pensato, però, che trovare le ragazze sarebbe stato più difficile che trovare i soldi.

REAZIONI DELLE FAMIGLIE. La maggior parte delle famiglie delle ragazze rapite e tornate vive temevano ritorsioni. Molti ricordavano ancora come i jihadisti, tornati una seconda volta a Chibok, avessero decapitato i due psicologi mandati dal governo per aiutare il villaggio a riprendersi dopo il primo attentato. Così molti genitori si sono rifiutati, altri hanno fatto finta di non avere figlie, altri ancora hanno mentito dicendo di averle sposate.

«L’EDUCAZIONE FA PAURA». Dopo un mese circa di ricerche, Godiya è riuscita a mettere insieme 11 ragazze e 11 genitori che non volevano più restare nel villaggio. Prima di partire verso Yola, ad agosto, una madre disse: «L’educazione fa paura. Così tante persone ci hanno scoraggiato, dicendo che non dovremmo mandarle a scuola perché verranno rapite di nuovo. Ma noi ci stiamo fidando di voi».

«VOGLIAMO AIUTARE CHIBOK». Dopo quel primo gruppo, altri genitori si sono convinti e altre 10 ragazze si sono unite alle prime 11. Arrivate all’università nell’agosto 2014, ognuna ha preso la sua strada e intrapreso studi diversi ma tutte hanno le idee chiare: «Vogliamo imparare e tornare indietro per aiutare il villaggio di Chibok». Del loro rapimento però non parlano con nessuno: «Mi hanno detto che pregano insieme tutte le sere», racconta al Guardian Margee Ensign, che ha aiutato Godiya a fondare l’associazione. «Ne parlano anche ogni tanto, ma solo tra di loro».

@LeoneGrotti

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