La verità sui talebani che l’Occidente non riesce ad accettare

Un talebano in Afghanistan giustifica a Repubblica gli orrori dei jihadisti con la frase: «È per il bene dell'islam». Il giornale minimizza, ma è una realtà con cui fare i conti

L’inviato di Repubblica a Kabul, Pietro Del Re, ha realizzato una bella intervista inquietante e rivelatrice allo stesso tempo. Girando tra le strade della capitale dell’Afghanistan, è andato alla ricerca di un talebano da intervistare. Non un feroce capo militare, non uno scaltro portavoce, né un abile ideologo. Ma uno dei tanti afghani che si sono uniti ai tagliagole per ideale, che hanno combattuto tra le montagne per lunghi anni e che hanno vinto. Ha trovato Mohammed Amin Ullah, 25 anni, soldato da quando ne aveva 17. Ullah ha usato il kalashnikov, il lanciarazzi, ha ucciso «tantissimi uomini», soldati e civili, si pavoneggia. E quando l’inviato gli chiede perché ha fatto tutto questo, ha una sola semplice risposta: «Per il bene dell’islam».

«Lapidiamo le donne, è la sharia»

Comprensibilmente interdetto, l’inviato di Repubblica lo incalza. E la lapidazione delle donne adultere? «È soltanto l’applicazione della sharia». E i kamikaze che fanno stragi di donne, anziani e bambini nei mercati? Ancora una volta, «è per il bene dell’islam». Del Re derubrica la risposta a «frase-mantra», buona per togliersi d’impaccio. Ma la realtà è molto più semplice e terribile allo stesso tempo: è la pura e semplice verità.

Ed è una verità che l’Occidente ha sempre fatto fatica ad accettare e con la quale non riesce a convivere neanche a 20 anni dall’11 settembre. Lo sosteneva qualche settimana fa Domenico Quirico sulla Stampa, commentando l’ingenuità di chi crede che si possa scendere a patti con i talebani, magari usando la leva economica, e che i tagliagole potrebbero anche diventare «moderati».

I talebani ascoltano i profeti

Scriveva l’inviato di guerra:

«per il fondamentalismo talebano l’economia, al contrario di quanto accade nel nostro mondo, non costituisce una voce fondamentale del progetto politico e sociale. Anzi: un mondo di poveri ma puri, a cui provveda per l’essenziale la carità medioevale della zakat, l’elemosina maomettana, è meglio che un emirato di benestanti dove inevitabilmente con lo “sterco del diavolo” arriverebbero tutti i vituperati vizi e le tentazioni dell’idra occidentale. È gente che ascolta non gli economisti, ma i profeti. Ciurme operose in quella parte del mondo predicano che il paradiso è la guerra santa, non un Pil ben aggiustato».

Dalla Nigeria all’Iraq, fino alla Francia

A dare a un talebano forza, convinzione e giustificazione – che ci piaccia o no – è la religione. La stessa che fa perseverare e imperversare i jihadisti di Boko Haram in Nigeria, quelli dell’Isis in Iraq, Al Qaeda nello Yemen. La summa jihadista «Noi amiamo la morte più di quanto voi amiate la vita» ne è il riassunto perfetto.

Lapidando le adultere e sottomettendo le donne, i talebani sono convinti di applicare la vera giustizia, quella che discende dall’alto. Così come compiendo la strage del Bataclan, sulla quale ieri si è aperto un mastodontico processo a Parigi, Salah Abdeslam è convinto di aver compiuto il suo dovere e percorso la strada indicata dal profeta Maometto: «Non ho paura di voi, non ho paura dei vostri alleati o dei vostri associati. Ripongo tutta la mia fiducia in Allah, questo è tutto, non ho altro da aggiungere», sono le uniche parole pronunciate dal terrorista in Belgio e che probabilmente ripeterà nella capitale francese.

L’Occidente di fronte all’«odio religioso»

Davanti a un odio così irragionevole e radicale è inutile, come hanno fatto molti giornali italiani, cercare di spiegare con astruse esegesi coraniche che la sharia applicata dai talebani non è l’unica possibile, dimenticando che in ogni caso è la stessa che vige anche in paesi “civilizzati” come l’Arabia Saudita.

A vent’anni dall’attentato alle Torri gemelle è giunto il momento per l’Occidente, davanti ai jihadisti e all’ideologia religiosa di cui si fanno portatori, di cambiare canovaccio rispetto a quello solito composto dalla triade stupore-negazione-rimozione. La posizione più ragionevole è quella che indicava Lorenzo Albacete sul nostro giornale all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, ripreso anche sul numero di Tempi di settembre, la cui copertina è dedicata proprio all’Afghanistan:

«Ci troviamo di fronte a un odio di tipo religioso. Se il terrorismo è l’affermazione che l’ultima parola sulla vita delle persone umane è la morte e se il suo orrore consiste nella negazione della realtà e del valore assoluto della vita di ogni singolo individuo, allora può essere sconfitto soltanto affermando la bontà della vita umana in modo ancora più forte della negazione dei terroristi. Dobbiamo dimostrare che l’amore per la vita è più forte del loro amore per la morte».

L’integralismo laico non è la risposta

Il primo passo è innanzitutto riconoscere la realtà dei fatti e smettere di sorprenderci davanti alle «frasi-mantra» dei jihadisti. Il secondo potrebbe essere quello indicato da padre Pierre-Hervé Grosjean nel 2015, dopo gli attentati del Bataclan, quando disse a Tempi:

«L’integralismo laico è il miglior alleato degli integralisti islamici perché nega la dimensione spirituale della persona umana e vuole far sparire la dimensione religiosa dalla società. Vuole soffocare le religioni. Ma una nazione che dimentica le sue radici e la sua eredità spirituale è fragile davanti alla forza delle convinzioni degli integralisti islamici. I media si domandano come dei giovani francesi possano partire per la Siria, rischiando la loro vita, a combattere per lo Stato islamico. E non si accorgono che parte della risposta è in questo vuoto spirituale nel quale facciamo crescere i nostri giovani. Chi risponderà alla loro sete di assoluto, al loro bisogno spirituale? Di certo non il nichilismo, la denigrazione permanente delle religioni o l’odio verso la propria cultura e identità. Queste cose, insieme al relativismo morale, non hanno mai portato felicità né costruito una civiltà né tantomeno unificato un paese».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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