Vent’anni senza Enzo. Con Enzo

Il fascino dell’«inquietudine divina» di Piccinini raccontato da uno dei suoi amici più stretti. Che è riuscito a trovare un vecchio romanzo molto caro (non a caso) al chirurgo emiliano

Articolo tratto dal numero di Tempi di maggio 2019.

Domenica 26 maggio 2019 cade il ventesimo anniversario della morte improvvisa di Enzo Piccinini, apprezzato chirurgo emiliano e dirigente del movimento di Comunione e Liberazione. Domani sera nel Duomo di Modena sarà celebrata una Messa in sua memoria dall’arcivescovo della città, monsignor Erio Castellucci, dal vescovo di Reggio Emilia (diocesi natale di Piccinini), monsignor Massimo Camisasca, e dal presidente della Fraternità di Cl, don Julián Carrón.

Per l’occasione pubblichiamo di seguito il racconto dell’amicizia con Enzo scritto per Tempi da Pier Paolo Bellini, docente di Sociologia della comunicazione all’Università del Molise, che ha affiancato Piccinini per 15 anni alla guida degli studenti universitari di Cl di Bologna. A Enzo Piccinini è dedicato un ampio servizio a più firme nel numero di Tempi di maggio, compresa la copertina. E di lui parleranno amici e allievi anche al Tempi Day del 14 giugno (qui l’invito aperto a tutti).

***

Capita ultimamente di incontrare vecchi amici che pongono una domanda un po’ imbarazzante: «Ma se Enzo fosse ancora qui, cosa direbbe della tal cosa, cosa penserebbe dell’altra, come reagirebbe a quel fatto o a quell’altro…?». È difficile poter indovinare. So però da dove partirebbe: da quell’ideale che ha caratterizzato i suoi 48 anni di esistenza terrena: «L’unica cosa che conta è l’inquietudine divina delle anime inappagate»1

Non mi è più capitato di incontrare persone che abbiano perseguito come lui, per la loro vita, «il tour de force che consiste nell’imprimervi il sigillo dell’Infinito»2. Stargli di fianco quotidianamente significava registrare, da una parte, il fascino che tale infinità inquieta esercitava sulla nostra giovinezza, e, dall’altra parte, la “scomodità di riflesso” che quel fascino portava con sé: non si era mai “a posto” (anche in senso geografico). Un continuo spettacolo di esagerazione. 

Non vi era traccia, però, in questo non essere mai a posto, dell’ansia di trovarlo (il posto): era evidente che non sarebbe stato in questo mondo. E neppure vi era traccia di una gestione clericale o moralistica dei limiti che emergevano e davano bella mostra di sé (con grande inventiva) in ciascuno di noi: tanto più l’ideale di perfezione ci attirava, tanto meno la nostra irriducibile incoerenza diventava occasione di lamento, dominio o commiserazione. 

Paternità piuttosto che paternale: «È strano come si possano infondere e sviluppare in una creatura amata virtù e purezza che noi stessi non possediamo!»3. Così era Enzo per noi, con noi. E noi con i più giovani: «Solo se uno ama dice quel che è vero, anche se lui non è capace di farlo»4, ci diceva. E ci faceva vedere. 

D’altra parte lui ci guardava (lo avremmo capito sempre più nel tempo) come veniva guardato: ci metteva del suo, certamente, abbondantemente. Ma, nelle linee essenziali, il suo sguardo era immagine di quello che lo aveva travolto e che lo stava travolgendo. 

Qualche mese fa mi sono messo sulle tracce (a distanza di trent’anni) di un libro di cui ci aveva spesso parlato, che lo aveva colpito per un’idea di fondo che andava, secondo lui, al cuore dell’esperienza cristiana. In realtà, ripercorrendo quel racconto, ho ritrovato molto di Enzo, del suo temperamento e soprattutto dello sguardo che lo aveva conquistato. 

Medio Evo. Puszta ungherese. Una carneficina feroce cancella ogni traccia di cristianesimo e ristabilisce il paganesimo degli antichi avi. Il giovane comandante dei pagani osserva la sua grande opera: tutto distrutto, tutto estirpato. Eppure, intorno ai resti diroccati della chiesa, le campane avevano inspiegabilmente cominciato a suonare a festa «e il loro rintocco era superato dal devoto canto di mille e mille voci. Nel cuore del paese ridiventato pagano e libero echeggiava l’inno della fede di Cristo! Come mai?»5. Come mai? Questa scena era per Enzo la descrizione del “segreto” del cristianesimo. Il potere (cioè la menzogna) si accorge che non può più nulla nel momento in cui i cristiani, perseguitati e dispersi, semplicemente “si rimettono insieme” per un fatto che li ha uniti, un fatto irriducibile a qualsiasi discorso o catechesi. Il vescovo (intorno al feretro del quale la gente tornava a riunirsi) aveva portato una terribile cosa alla nazione: aveva insegnato a pensare, «e chi è uomo soffre perché pensa. La stessa vertigine che dovette provare l’uomo uscito per la prima volta a tentoni fuori dalla nebbia millenaria della inconsapevolezza quando gli fu necessario conoscere le barriere e i limiti della propria vita. La stessa vertigine da cui l’uomo non poté mai più liberarsi; che accompagnerà fino alla tomba l’ultima delle creature di questa terra»6

Questa vertigine Enzo ha comunicato a noi: «Bisogna che un’eruzione di lave profonde e brucianti venga a fondere l’alluvione inerte dei giorni. E questa lava si chiama verità»7. Per la verità eravamo disposti a fare a botte tra noi (è capitato), per una parola detta (perché ha un valore eterno): ne andava della nostra vita e perciò della nostra amicizia. Ma nello stesso tempo ci ha comunicato un’altra vertigine (più vertiginosa): «Il cuore e la verità non procedono mai in sintonia»8. Da soli, la verità diventa sempre quello che pensiamo. Lo ripeteva Enzo: «Come dice la Bibbia: “Guai all’uomo solo!”. Occorre mettersi insieme. È il metodo della Chiesa, cioè il senso del legame con altri. E il “test” che non si è soli è che non si smette mai di lottare»9

Quel romanzo sembra la biografia di Enzo cinquant’anni prima che nascesse: era stato il vescovo stesso a inviare il giovane (che poi, ribellandosi, lo avrebbe ucciso) facendogli arrivare queste oscure e potenti parole: «Di’ al mio figliolo che il vescovo vuole raccogliere il fico sulla spina e l’uva sul biancospino»10. In Enzo davvero si cominciava a veder spuntare fiori sui rovi: veramente «l’incontro gli aveva trasformato la fattura perfino di certi tratti del temperamento, altri esaltandone»11. È stato commovente vedere, lungo i 15 anni di amicizia terrena, come gli spigoli della sua personalità non venissero smussati, ma giorno per giorno (sotto lo sguardo paziente del fattore che sa aspettare) diventassero strumenti affilati per la gloria umana di Cristo.

I successivi vent’anni di paternità incerta confermano il metodo definitivo con cui Dio ci si fa incontro. Mistero eterno di preferenza, disorientante inequità divina in cui il creatore si mischia con la creatura (scegliendo tramite lei) per associarla alla sua grande impresa; in cui l’ingiustizia del preferire diventa norma, normalità e condizione dell’amore; in cui l’invidia umana si trasforma in responsabilità e desiderio di santità; in cui la salvezza si riappropria del mondo. 

Inspiegabile, ingiusto e antipatico Mistero attraverso il quale Egli ha deciso di innervare il mondo per salvarlo, prendendo uno per afferrare gli altri attraverso l’uno, fissando l’uno nella vita dell’altro, definitivamente, creando legami che durano finché dura il sì a colui (cioè Colui) che ti invita (questo basta e avanza per la salvezza). 

Tutta la catena ininterrotta degli uni, quei Pietro, Filippo e Zaccheo, quella Maria di Magdala e le altre Marie e quella mamma di Giussani e don Giggino… e Enzo e noi e i figli dei suoi figli; tutto questo gran dispendio inequale… per esaltare gli eguali. Discriminandoli, cioè santificandoli reciprocamente

Un mistero di scelta, un mistero di discriminazione: «È attraverso Abramo, che è un discendente di Adamo. È attraverso Abramo. Non attraverso Cam, Sem, non attraverso un altro: attraverso Abramo! Poteva essere attraverso Lot, che era il nipote di Abramo: era lì vicino! Poteva sbagliare di mezzo millimetro! Da queste osservazioni dipende il valore del cielo e della terra, dipende il valore del calore del sole o il valore del colore del mare»12. Con Enzo, cioè con Giussani, abbiamo cominciato a godere del valore del calore del sole e del colore del mare. In una continuità ininterrotta di amicizia autorevole. 

Enzo è diventato Enzo quando è stato preso, quando il suo nome è stato scritto sulle palme delle mani («come si fa per le cose essenziali per un compito in classe», ci ricordava sempre), quando la sua persona è diventata oggetto di una presa diretta. Virile. Da fuori. Mediata da un uomo e per niente mediatica, «perché nulla vale come uno sguardo d’uomo che incontra uno sguardo d’uomo, dice Dio»13

E come era preso, prendeva. 

In una vacanza degli universitari di Cl, Enzo costrinse noi “capetti” a mangiare sempre insieme allo stesso tavolo: era fondamentale che diventassimo amici e che si potesse vedere quest’amicizia autorevole (antipatica fino alla simpatia). «Anzi – disse –, facciamo fare dagli ingegneri un palco su cui mettere il vostro tavolo, in modo che siate visibili da qualunque punto della sala». Uno spettacolo continuo di esagerazione.

Era così Enzo, sempre esagerato, cioè ex (fuori di) ogni agger (argine). Nel nostro mondo brullo, l’esagerazione è l’azione di chi vuol far parer le cose maggiori di quello che sono: e invece le cose sono realmente maggiori di quello che sono. 

È questa esagerazione cristiana l’anticamera della santità.  

***

1) Mounier E., Lettere sul dolore, Rizzoli, 1995, p. 23

2) Ibidem

3) Van der Meersch M., Corpi e anime, Rizzoli, 1996, p. 69

4) Piccinini E., Il fuoco sotto la cenere, SEF, 2018, p. 74

5) Herczeg F., I pagani, Rizzoli, 1958, p. 217

6) Ibidem, p. 221

7) Mounier E., Lettere sul dolore, Rizzoli, 1995, p. 93

8 Ibidem

9) Piccinini E., Il fuoco sotto la cenere, SEF, 2018, p. 95

10) Herczeg F., I pagani, Rizzoli, 1958, p. 43

11) Giussani L., “Quell’impeto di vita”, Tracce, giugno 2000, p. 1

12) Giussani L., “Un mistero di scelta”, Tracce, marzo 2001, p. 10

13) Péguy C., I misteri, Jaca Book, 1984, p.342

Exit mobile version