L’unico russo buono è il russo cancellato. La deriva staliniana dei giusti

Così la presunzione di vedere con “chiarezza morale” la guerra in Ucraina trasforma un intero popolo e la sua cultura in bersagli da colpire. Questo è il totalitarismo

Ritratto di Fëdor Dostoevskij su una parete della fermata a lui dedicata della metropolitana di Mosca (foto Ansa)

Per gentile concessione di First Things, proponiamo di seguito in una nostra traduzione un commento sulla “cancellazione della cultura russa” di Gary Saul Morson, professore di arte e studi umanistici e di lingue e letteratura slave alla Northwestern University, tra i maggiori studiosi di Tolstoj e Dostoevskij negli Stati Uniti. L’articolo è apparso lunedì 14 marzo nel sito della rivista americana (qui l’originale in inglese).

* * *

In epoca medievale, quando un pensatore riusciva a rivendicare una rivelazione divina, poneva le sue parole al di fuori di ogni discussione. Solo degli irredimibili ottenebrati o degli indemoniati avrebbero potuto dubitare di lui. Negli ultimi decenni si raggiungono risultati simili intestandosi “la scienza”. I politici assicurano di “limitarsi a seguire la scienza”, mentre i mass media mettono al bando chi pone domande come nemico della scienza. La pseudoscienza non se l’è mai passata così bene.

C’è un altro modo per mettere a tacere gli avversari oggi: affermare che un determinato problema è di “chiarezza morale”, un’espressione che segnala che la questione è “risolta” e non sono ammesse ulteriori discussioni. In casi simili, non sono i fatti a suscitare una narrazione, è la narrazione a determinare i fatti. Quando un problema viene dichiarato “moralmente chiaro” secondo questo schema, l’implicazione è che solo un individuo immorale potrebbe mai nutrire il minimo dubbio. Il mondo si divide nettamente in buoni e cattivi. Non può esistere uno scettico in coscienza. E quando le persone sono incondizionatamente cattive, diventa giusto dire o fare qualunque cosa contro di loro.

In quanto docente di letteratura e pensiero russi, ho più che una semplice familiarità con questo modo di ragionare. È così che si comportava l’Unione Sovietica. Una volta che il Partito aveva preso una decisione su un argomento, le zone grigie sparivano. È il motivo per cui ogni voto del parlamento sovietico era unanime e alle elezioni c’era un solo candidato. L’idea stessa che una questione fosse discutibile era mistificazione borghese, escogitata per impedire alla classe operaia di agire decisa nel proprio interesse. Alla stessa maniera, tutti i problemi diventavano giochi a somma zero. Al primo anno di economia si impara che in qualunque transazione non forzata entrambe le parti traggono beneficio, altrimenti non porterebbero a termine lo scambio; nel pensiero marxista-leninista, invece, il guadagno di una parte è necessariamente una perdita per l’altra.

Sono stato perciò tutt’altro che felice di imbattermi in un op-ed del Wall Street Journal che esprime sollievo per il fatto che la situazione in Ucraina offra “chiarezza morale”. Negli ultimi anni, spiega l’autore, «il collettivismo ha trovato una nuova vitalità ed è mutato in una forma di autoritarismo progressista», ma la situazione attuale è così moralmente chiara da offrire «un’occasione di riscoprire i princìpi della libertà e della democrazia, erosi da tendenze intellettuali illiberali». La mia formazione russa mi ha fatto sorgere una domanda: come può una situazione in cui tutti sono tenuti moralmente a essere d’accordo aiutarci a superare una mentalità collettivista? Libertà e democrazia, in fondo, dipendono dalla legittimità delle differenze di vedute. I problemi che appaiono moralmente chiari possono essere tali soltanto fino a un certo punto. Non tutto ciò che va a vantaggio della parte virtuosa è necessariamente virtuoso. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è la presunzione che, una volta raggiunta una certezza nelle nostre posizioni, non ci sia più alcuna riflessione da fare. Al contrario, più siamo a favore di una parte in questione, più abbiamo bisogno di contemplare la possibilità di un pregiudizio selettivo nell’esame delle prove.

La maggioranza schiacciante degli americani e degli europei adesso sta dalla parte dell’Ucraina. A dire il vero, i Socialisti democratici d’America affermano che la Russia è più vittima che carnefice e che la soluzione all’attuale crisi sia sciogliere la Nato. E il professor John Mearsheimer dell’Università di Chicago sostiene che la crisi conferma quanto lui sosteneva già da tempo, cioè che incoraggiando l’Ucraina a occidentalizzarsi avremmo sollecitato una comprensibile intromissione della Russia. Ma queste idee ora appaiono decisamente marginali. Non mi hanno sorpreso l’aggressione, la brutalità o le accuse pretestuose di Putin – che altro ci si doveva aspettare da un ex agente del Kgb al potere? – ma non avevo previsto l’encomiabile decisione delle potenze occidentali di esercitare pressioni sui leader russi e di aiutare la resistenza ucraina. La Germania ha raddoppiato il suo budget per la difesa e hanno preso posizione perfino nazioni neutrali come la Svizzera.

Se solo la “chiarezza morale” si fosse fermata qui! Invece, come per la cancel culture degli ultimi anni, più ci si spinge oltre, più ci si sente virtuosi. Qualunque affermazione a sostegno della parte giusta deve essere accettata, qualunque azione danneggi l’avversario deve essere giustificata. È vero che la propaganda ufficiale russa diffonde menzogne vergognose e che il regime soffoca le voci dissenzienti. Ma da questo consegue che qualsiasi cosa dicano il governo ucraino e gli osservatori ad esso favorevoli debba essere vera? O che chiunque invochi il filtro dello scetticismo applicato normalmente a tutte le fonti di parte debba essere un sostenitore di Putin? Dovremmo forse anche noi mettere al bando le voci dissenzienti?

Nello spirito della chiarezza morale, qualunque cosa “russa” è divenuta immorale. Si pensi che in Olanda un negozio di alimentari russo è stato vandalizzato, una chiesa russo ortodossa è stata imbrattata e una scuola russa ha subìto intimidazioni mirate a farla chiudere. Il “supermercato russo” è specializzato in realtà nel commercio di alimenti da molti paesi dell’Est Europa, e avrebbe potuto più correttamente essere chiamato “supermercato slavo”, peccato che, come spiega il proprietario armeno, «nessuno sa cosa significhi». La chiesa russa, che serve cristiani ortodossi provenienti da diversi paesi, in realtà raccoglieva soldi per il popolo ucraino. E tra gli alunni della scuola russa ci sono studenti estoni, uzbeki e ucraini. «La gente pensa che il russo sia parlato esclusivamente in Russia», sospira il direttore, ma chiunque conosca la storia recente sa che in diverse ex repubbliche sovietiche è la lingua delle persone istruite.

Uno studente russo di Medicina ad Amsterdam, fuggito dal suo paese, ha raccontato come si trovi continuamente a dover spiegare che ci sono russi buoni e russi cattivi. In effetti un gran numero di russi che si oppongono all’attuale stato di cose sono diventati profughi. Scrive un giornale olandese: «Martedì il primo ministro Mark Rutte ha invitato gli olandesi a evitare le violenze verbali contro i russi». Il sindaco di Amsterdam si è sentito a sua volta in dovere di spiegare: «Abbiamo un problema con Putin e lo Stato russo, non con la popolazione russa o i russi residenti ad Amsterdam… Questa guerra non deve portare a discriminazioni». Si può supporre che quanti dopo l’11 settembre lottarono strenuamente contro le discriminazioni nei confronti degli arabi (o di persone prese per arabe) anche in questo caso vigilino contro gli abusi verso persone a cui è capitato di essere russe, ma in un clima di “chiarezza morale” coerenza e sfumature spariscono.

Alcuni artisti e personalità russi adesso devono dichiarare pubblicamente la loro opposizione a Putin per potersi esibire. Quanto ci vorrà perché artisti e accademici ebrei siano tenuti a dirsi contrari a Israele, o i musulmani a qualunque paese musulmano con cui stiamo combattendo?

Quando la Vancouver Recital Society ha cancellato un concerto del pianista russo Alexander Malofeev, vincitore nel 2014 dell’International Tchaikovsky Competition for Young Musicians, la fondatrice e direttrice dell’associazione, Leila Getz, ha spiegato che l’organizzazione non poteva «presentare concerti di artisti russi in questo momento, a meno che non siano disposti a prendere pubblicamente posizione contro questa guerra». Ben lungi dall’appoggiare l’operato di Putin, Malofeev ha dichiarato che «ogni russo si sentirà in colpa per decenni a causa di un terribile e sanguinosa decisione che nessuno di noi avrebbe potuto influenzare e prevedere». Ciononostante, ha proseguito, pretese come quelle di Getz sono moralmente ingiuste. In fondo alimentano odio verso le persone solo per via della loro nazionalità e «non si può giudicare le persone sulla base della loro nazionalità». In altre circostanze non chiameremmo forse simili giudizi “razzisti” o “fascisti”? «Non ho mai visto tanto odio propagarsi in tutte le direzioni, in Russia e in giro per il mondo», riflette Malofeev. «Per quale motivo il mondo intero in pochi giorni è regredito in uno stato in cui ogni uomo si trova a dover scegliere tra paura e odio?». «Adesso vengo contattato da giornalisti che vogliono che faccia dichiarazioni», spiega Malofeev, ma farlo metterebbe in pericolo la sua famiglia in Russia. Sicuramente quelli che gli chiedono simili dichiarazioni devono o possono facilmente sapere di questi rischi. Viene da chiedere: questi giornalisti che rischi corrono?

Il soprano Anna Netrebko ha osservato: «Costringere gli artisti… a esprimere le loro idee politiche in pubblico e ad accusare il loro paese non è giusto. Dovrebbe essere una libera scelta. Come molti miei colleghi, io non sono una politica… Sono un’artista e il mio scopo è unire le persone oltre le divisioni politiche».

La cultura russa in quanto tale è diventata un bersaglio. Artisti russi vissuti molto prima della nascita di Putin, o perfino dell’istituzione della polizia segreta sovietica che lo ha formato, sono stati cancellati. In Italia le lezioni dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij sono state “sospese”. «È per evitare ogni forma di polemica, soprattutto interna, in questo momento di forti tensioni», recitava l’email che ha ricevuto. Ha replicato Nori: «Mi rendo conto che quanto sta accadendo in Ucraina è orribile, e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta accadendo in Italia è ridicolo… In Italia adesso è una colpa non solo essere russi vivi, ma anche essere russi morti. Che un’università italiana vieti un corso su un autore come Dostoevskij è incredibile». In seguito alle reazioni, l’università ha annullato la decisione.

Molte cancellazioni, però, non sono state annullate. In Belgio è stato cancellato un concerto di Stravinskij. In Galles, la Filarmonica di Cardiff ha eliminato un programma dedicato a Čajkovskij. In Olanda la Filarmonica di Haarlem ha cancellato un minifestival con brani di Čajkovskij e Stravinskij spiegando che «sarebbe inopportuno celebrare la musica russa». «Temono minacce. Ma non ci si dovrebbe arrendere a questo», ha commentato l’esperto russo Michel Krielaars. «Sembrano atteggiamenti sovietici». Stiamo diventando ogni giorno di più come la Russia?

«C’è la Russia di Putin e la Russia di Puškin», osserva Krielaars. Incolpare un’intera cultura, passata e presente, di un’azione politica di oggi implica che tutto di quella cultura abbia contribuito a tale azione. Visto che la Germania si è arresa ai nazisti, non ascoltate Beethoven; per colpa di Mussolini, cancellate Dante e Raffaello; se non accettate quello che hanno fatto gli americani in Vietnam, in Medio Oriente o altrove, niente più Thoreau o Emily Dickinson. Può esserci un modo migliore per incitare all’odio nazionale che trattare un’intera cultura e la sua storia come un insieme unitario e portatore, quasi geneticamente, di qualità orrende?

Quando nel 1970 visitai la Polonia sotto il controllo sovietico, la gente comprensibilmente non sopportava il dominio russo. Maldisposti verso il consumo forzato di cultura russa, alcuni reagivano, come fanno spesso gli oppressi, con quel tipo di odio cieco che predispone le vittime a farsi oppressori non appena si rovesciano i tavoli. Come osserva un personaggio del romanzo di Dostoevskij I fratelli Karamazov, «offendersi a volte è molto piacevole». Un polacco che incontrai mi disse con orgoglio: «Io odio perfino gli alberi russi!». «Ce l’hai con le betulle?», domandai incredulo. Ma più le sue dichiarazioni erano assurde, più lui si sentiva nel giusto.

Forse è stato un sentimento simile a portare un mio collega della Northwestern University, un professore appassionatamente pro Ucraina, a tentare di cancellare una lezione sulla filosofia idealista russa e ad avanzare la pretesa che il mio dipartimento, il dipartimento di lingue e letteratura slave, rimuovesse dal suo sito una foto del Cremlino. Quella foto era lì da molti anni, a richiamare non la politica estera russa, bensì la cultura russa. Se avessimo utilizzato una foto della cattedrale di San Basilio, il mio collega ci avrebbe accusato di promuovere l’ortodossia russa? Chissà che presto non ci sarà chiesto di smettere di insegnare Tolstoj, rifletteva un altro collega.

Una recente dichiarazione sottoscritta da numerose organizzazioni slave, dalla Harvard University Library e da 162 firmatari a titolo personale invita al rifiuto di qualunque cosa abbia il minimo collegamento con milionari russi o istituzioni governative, il che significa musei e biblioteche. Suggerisce alle università di rinominare edifici e programmi che abbiano ricevuto sostegno finanziario russo. Chiede la messa al bando di vari artisti, tra i quali Anna Netrebko. Considerato il tono esageratamente retorico di tutto il documento, non so quanta fiducia riporre nelle asserzioni in esso contenute a proposito di legami stretti o remoti con oligarchi russi: non ne offre alcuna documentazione. Tra le iniziative discutibili denunciate nella dichiarazione figurano la serie di traduzioni della Columbia University Press di classici della letteratura russa come la grande commedia primonovecentesca di Aleksandr Griboedov Che disgrazia l’ingegno!. Davvero tutto ciò che è russo, comprese le opere più belle che illuminano il mondo, è un bersaglio legittimo? Forse anche quelle incresciose betulle russe sono state piantate dal governo russo e andrebbero tagliate?

Le richieste della dichiarazione saranno accolte? Sì. Di recente ho ricevuto un’email da un collega che sta lavorando sulla traduzione di un classico russo per la serie della Columbia University Press. Il suo editor gli ha detto che, poiché la casa editrice ha respinto il contributo finanziario che sostiene la collana, le pubblicazioni sarebbero state drasticamente ridotte. La Columbia University spera forse che mettere al bando Griboedov obbligherà Putin a ragionare?

Nemmeno al culmine della Guerra fredda a qualcuno è venuto in mente di mettere al bando la letteratura, l’arte o la musica russe. Al contrario, è stato proprio quello il periodo in cui gli studi russi sono fioriti per la prima volta. La lingua russa iniziò ad essere insegnata diffusamente, nelle scuole secondarie come nei college, e il National Defense Foreign Language Act inserì il russo tra le “lingue di interesse critico” da sostenere. Proprio il fatto che l’Urss fosse percepita come un nemico mortale faceva ritenere che gli americani dovessero sapere di più della cultura russa, non di meno. E c’era anche la speranza che la grande letteratura e arte, che tutti potevano condividere, avrebbero unito le persone.

Oggi gli accademici cancellano (o licenziano) i colleghi americani e bandiscono i relatori che reputano controversi, dunque non sorprende molto che estendano la medesima cortesia agli stranieri controversi. Come riporta Chicago City Wire, un gruppo di studenti dell’Università di Chicago ha «fatto circolare una lettera che invita l’ateneo a esigere che il professore di Scienze politiche John Mearsheimer cambi le sue idee sul conflitto russo-ucraino». Non solo ripudiarle ma cambiarle? Non è forse questa la peculiarità distintiva del totalitarismo, esigere non solo obbedienza ma autentica adesione personale? Eppure questo è quel che accade in continuazione nei campus, dove si chiede a professori e studenti non solo di rispettare regole che potrebbero non condividere, ma di accettare l’ideologia su cui esse si basano.

Se la storia russa insegna qualcosa, è che la “chiarezza morale” non ha limiti. Se la giustizia sta tutta da una parte, allora è giustificato dire o fare qualsiasi cosa – letteralmente qualsiasi cosa. Anzi, astenersi dall’intraprendere le misure più estreme significa permettere il male, cosa che comporta il rischio di essere accusati di complicità. Quando Stalin inviava ai funzionari locali le quote di persone da fare arrestare, questi rispondevano chiedendo quote sempre più alte. Era la cosa più sicura da fare per dimostrare la propria lealtà. Nessuno ha mai consolidato la propria posizione invocando minore durezza verso i nemici. Se tutto è nero o bianco, prima o poi chiunque è a rischio.

«Se solo fosse così semplice!», rifletteva Aleksandr Solzenicyn a proposito di questo modo di pensare. Se solo fosse questione di uomini buoni che fanno sempre cose buone in lotta contro uomini malvagi e i loro complici diretti o indiretti. Un modo di pensare del genere non è solo profondamente pericoloso, ma fraintende alle fondamenta la natura stessa del giudizio morale. Più il problema è serio, maggiore, e non minore, dovrebbe essere l’attenzione nell’affrontarlo. E non dobbiamo mai dimenticare, come osservava spesso Solzenicyn, che «la linea che divide il bene dal male» corre non tra una persona o una classe sociale e un’altra. Essa piuttosto «attraversa il cuore di ogni uomo».

Exit mobile version