«Tfa? Buona notizia. Ma finché non riformiamo il sistema saremo sempre in emergenza»

Intervista a Giovanni Cominelli sul Tirocinio formativo attivo, che a giugno accoglierà 20 mila aspiranti insegnanti: «È una buona notizia ma bisogna programmare la corrispondenza tra il mercato del lavoro pubblico della scuola e gli aspiranti. La formazione e il reclutamento vanno cambiati. Altrimenti saremo sempre in emergenza».

Il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca ha reso noto il numero dei posti disponibili per le immatricolazioni al Tirocinio formativo attivo, il corso di preparazione che abilita all’insegnamento nelle scuole statali e paritarie. Notizia accolta con soddisfazione dai giovani universitari e neolaureati in attesa di reclutamento, ma che nasconde ancora molte incognite. «Intanto i posti messi a bando sono 20 mila su circa 40 mila laureati sul “terreno” dal 2008». A rispondere a tempi.it è Giovanni Cominelli, esperto in politiche educative, già consulente delle associazioni del personale docente. «Accadrà che quando indiranno i concorsi, con l’attuale modalità, si “scontreranno” i giovani laureati che usciranno dai Tfa e quelli che sono già abilitati, che aumenteranno più passa il tempo».

Quindi rimane il corto circuito?
Il problema fondamentale è che il Ministero dell’Istruzione non ha mai, dico mai, programmato la corrispondenza tra il mercato del lavoro pubblico della scuola e gli aspiranti, tra la domanda e l’offerta: le università sono interessate a buttare sul mercato più gente possibile, tanto poi non è più un problema loro. Ma i posti sono quelli che sono, anzi, sono diminuiti. Le cifre sono spietate: i posti sono largamente inferiori alla domanda. Il circolo vizioso consiste in questo: siccome non si fanno riforme, si va avanti per emergenza, in particolare non si cambia in maniera radicale la modalità di reclutamento, si risponde di volta in volta, creando conflitti tra i precari, tra i già abilitati ma non assunti, tra i giovani insegnanti che sperano di entrare. Sono le guerre dei “polli di Renzo”, tutti hanno ragione e tutti torto.

Dovrebbero smantellare i cosiddetti “concorsoni”?
L’unica speranza è che si rinnovi in maniera radicale la formazione degli insegnanti, cioè, si faccia il numero programmato o numero chiuso, come vogliamo chiamarlo. Se io so che nei prossimi vent’anni mi servono, dico un numero a caso, centomila insegnanti di matematica, non ha senso che io ne butti sul mercato 400 o 500 mila. Quindi si deve sapere fin dall’inizio che chi aspira ad insegnare, deve entrare in un circuito a numero programmato, altrimenti avremo gente che attende e che considererà un diritto avere un posto, quando invece sarà impossibile ottenerlo.

Sta dicendo che abilitare altre 20 mila persone non è un passo positivo?
No! La notizia è buona. Se dovesse procedere regolarmente, nel 2013 dovremmo avere ventimila abilitati in più e quindi ventimila precari in meno. Però queste risposte sono, lo ripeto, emergenziali. Si deve riformare la modalità di reclutamento e la Regione Lombardia è decisa a sperimentare.

Riformarla in che modo?
Ogni singola scuola deve poter mettere a concorso il posto, così come oggi già accade negli ospedali. Ti serve l’anestesista, recluti un anestesista. Tra l’altro mancando una legge nazionale, ed essendo materia concorrente, anche quest’ultima iniziativa della Regione Lombardia rischia di essere vanificata se si accoglieranno i ricorsi, che sono già partiti. Speriamo che nell’ambito di una sperimentazione la risposta del ministro Profumo sia quella che ha lasciato intendere, cioè di poterne discutere. Ma questa è un’altra storia.

Il sottosegretario all’Istruzione Elena Ugolini ha affermato che i Tfa non si possono fare senza la scuola e senza un percorso che verifichi sul campo la capacità dell’aspirante a stare in classe.
Mi sembra molto ottimista. In realtà si parla del regolamento che venne varato a suo tempo dalla Gelmini. La contestazione che io e altri, come Diesse nazionale e Diesse Lombardia, portiamo avanti è che attualmente chi decide se uno è capace di insegnare o meno è solo l’università. Noi proponiamo invece che la scuola sia contitolare del cinquanta per cento del voto del giudizio. Se uno insegna matematica, l’università mi deve dire solo se sa la materia; ma se il candidato sappia stare con i ragazzi, o sappia stare con i colleghi, lo può affermare solo la scuola. Se la scuola non ha l’ultima parola, prevale sempre il centralismo.

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