Schlein-Cappato: il Pd non è più di sinistra dai tempi di Di Pietro

La scelta del radicale alle suppletive di Monza è figli della deriva del partito dopo il crollo del comunismo: prima si è nascosta dietro i giudici, ora dietro i diritti

Antonio Di Pietro con Massimo D’Alema, 1 aprile 2000 (Ansa)

Il direttore di Tempi si chiede come i cattolici del Pd possano votare alle suppletive per il seggio del Senato in Brianza (22 e 23 ottobre), quello che fu di Silvio Berlusconi, il radicale Marco Cappato. La domanda è legittima, quasi lapalissiana. Del resto, il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni non fa mistero di portare alle elezioni i suoi argomenti di sempre: i diritti civili, i temi del fine vita, del suicidio assistito, dell’autodeterminazione sul proprio genere, la legalizzazione della cannabis. Tutto ciò avviene senza consultare il territorio, ma come scelta autarchica di Elly Schlein.

Ora, è facile puntare il dito sulla segretaria del Pd eppure questa non è una novità, anzi l’operazione monzese è figlia di una deriva che ha radici lontane. Il “Partito”, perse le sue connotazioni di base dalla sconfitta di Occhetto proprio con Berlusconi nel 1994, è alla ricerca di una via di fuga dalla propria estinzione. Sconfitta l’idea di un’alternativa di società al mondo capitalista, fallita ogni istanza socialdemocratica, ha lavorato per trent’anni per conquistare il potere (perché è sempre meglio stare nella stanza dei bottoni che starne fuori) senza offrire una visione chiara di cosa volesse fare con questo potere, se non protrarne la conservazione, e cercando di volta in volta, leader di riferimento esterni come Jospin, Zapatero, Obama etc.

Politico da spettacolo

Nel 1997, proprio in un’elezione suppletiva, tutto questo era già chiarissimo. Le elezioni, si resero necessarie per il posto senatoriale lasciato vacante dal sociologo Pino Arlacchi, che divenne delegato presso l’Onu. Il collegio era blindato, quindi neppure in quell’occasione furono consultati i delegati sul territorio e l’allora segretario dei Ds, Massimo D’Alema, candidò l’ex magistrato simbolo di Mani Pulite, Antonio Di Pietro che, in quel momento, rappresentava la quintessenza del politico “da spettacolo”, che i media avevano elevato ad eroe, con un ruolo salvifico, per una Prima Repubblica che era caduta sotto il grimaldello della magistratura e delle sue temerarie requisitorie.

Allora come oggi, ci si chiede come è stato possibile che la sinistra abbia sussunto dentro quello che Pier Paolo Pasolini aveva definito il partito nel partito, un uomo tendenzialmente di destra che aveva calpestato ogni parvenza di garantismo, costruendo il suo consenso politico sulla paura delle manette, demonizzando qualsiasi avversario politico.

Dalla magistratura ai diritti

Cosa c’entrava la sinistra operaia, quella dei consigli di fabbrica, degli sfruttati, della scalata al cielo, con l’ex magistrato? Nulla, ma morto il comunismo, la sinistra si è ritrovata incapace di elaborare una politica capace di costruire un’alternativa al liberismo, così si è gettata nelle braccia della magistratura. La lotta contro Berlusconi è proseguita per trent’anni su questa falsariga, senza una politica di contrasto che non fosse quella giudiziaria.

Ebbene da quel 9 novembre 1997 con l’elezione di Antonio Di Pietro al Mugello che sconfisse Alessandro Curzi per Rifondazione, appoggiato anche dai Socialisti italiani, Giuliano Ferrara per il raggruppamento di centrodestra e un quarto candidato, Franco Checcacci della Lega, con un risultato bulgaro (67,75 per cento), la storia non è cambiata. Fallita anche quella via, non è rimasta che la radicalizzazione del partito, le battaglie civili, i diritti per le coppie omosessuali e l’utero in affitto. Un partito che per convenzione chiamiamo di sinistra ma di cui non è rimasto più nulla. Unica differenza è che il cinico D’Alema candidò Di Pietro in un collegio blindato, mentre “l’armocromica” Elly Schlein si affida a Cappato in un territorio dove le chance di vittoria sono davvero esigue.

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