Il politicamente corretto sta perdendo colpi?

Lunga analisi del New York Magazine sui danni del progressismo illiberale. Ma la sinistra che fa mea culpa e denuncia gli eccessi woke ha il difetto di pensare di essere la sola soluzione al problema

Manifestanti di Black Lives Matter chiedono la rimozione della statua del generale Lee a Richmond, in Virginia, nel settembre 2021 (foto Ansa)

«Sono passati sette o otto anni da quando un’ondata di norme illiberali su razza e genere ha iniziato a colpire una serie di istituzioni. Il nome di questo fenomeno continua a cambiare, da politcamente corretto a call-out culturecancel culture a woke, perché ogni volta che salta fuori una nuova etichetta i Repubblicani la applicano a qualsiasi cosa non sia di destra. Ciò che restava della sinistra liberale avrebbe dovuto chiarire che, no, ciò che stavano criticando erano cose che non c’entravano con loro: gergo impenetrabile, folle irrazionali, sessioni di lotta, inquietanti scuse forzate, licenziamenti assurdi […]. A sinistra il dibattito è stato sostituito dall’assenso obbligatorio e le idee sono state sostituite da slogan che possono essere recitati ma non messi in discussione: Black Lives Matter, Transizione Green, le donne trans sono donne, Defund the Police». Ha scritto così pochi giorni fa sul New York Magazine Jonathan Chait, saggista liberal che da tempo denuncia l’illiberalismo della sinistra americana, in un lungo articolo intitolato “Il politicamente corretto sta perdendo”.

L’ideologia woke non regge più

Come sempre più intellettuali di sinistra stanno facendo, Chait denuncia la deriva pericolosa e violenta della cultura dominante progressista che ha occupato università, media, aziende, case editrici e industria dell’intrattenimento, ma si dimostra incredibilmente ottimista (forse troppo): «Non do per scontato il successo della sinistra illiberale», dice, «penso che si possa fermare. In effetti, sospetto che le acque alluvionali si stiano già ritirando». La tesi di Chait è che «un sistema basato sulla sottomissione spaventata dei dissidenti è una fragile base per il cambiamento sociale», e che inizino a intravvedersi reazioni anche a sinistra, tra chi cioè a lungo ha tratto vantaggio dal politicamente corretto e dall’ideologia woke, ma che ora vede finalmente con i propri occhi ciò che i conservatori da tempo denunciano.

Non è più tempo per bianco o nero, dice Chait, affrontare temi come razza e genere con le stesse modalità con cui si discute di qualsiasi cosa sui social network non regge più. «Gli attivisti riducono quasi ogni problema a un binario moralistico e considerano qualsiasi dissenso un fallimento personale»: se non sei d’accordo con le tesi più estreme dell’ambientalismo sei per forza un boomer che vuole far bruciare il pianeta dopo averlo sfruttato per decenni; se non sei d’accordo con il licenziamento di un giornalista accusato di razzismo per avere citato un insulto razzista in un suo articolo sei certamente razzista anche tu; se pensi che le donne trans non siano uguali a chi nasce donna sei transfobico; e così via.

Il silenzio politicamente corretto imposto dalle élite

«Quello che sembrava essere un ampio consenso all’interno delle istituzioni d’élite era in realtà un silenzio imposto. Sta cominciando a cedere il passo a un attento ma deciso respingimento – nel campus, nei media e in politica». Chait elenca una serie di episodi recenti in cui qualcuno ha avuto il coraggio di dire «così è troppo». Settecento docenti dell’Università del Michigan hanno firmato una lettera per chiedere il reintegro di una collega licenziata per avere fatto vedere agli studenti un vecchio film in cui Laurence Olivier si dipingeva la faccia di nero, il preside della facoltà di Legge a Yale ha definito “inaccettabile” l’interruzione di un convegno da parte degli studenti, e sempre più college tornano a ribadire il principio per il quale i campus devono essere luoghi di libero dibattito. Persino i giornali iniziano timidamente a mettere a tema il problema dell’assenza di libertà di parola in America.

Ma più di questi – ancora pochi – esempi di “risveglio” in senso buono, sono i politici democratici a iniziare a rendersi conto che con il politicamente corretto non si vincono le elezioni, anzi. L’ex sindaco di Filadelfia Michael Nutter ha accusato i “bianchi woke” di avere negato l’ondata di criminalità nella sua città (per paura di essere definiti razzisti), il sindaco di San Francisco London Breed si è scagliata contro «le cazzate che hanno distrutto la nostra città». Il membro del Congresso Ruben Gallego ha giustamente sottolineato come non se ne possa più della sinistra che chiama le persone di origine latinoamericana parola Latinx: «Quando i politici latinos usano questo termine, è soprattutto per tenere buoni i ricchi progressisti bianchi che pensano che sia il termine che usiamo».

Tre motivi per ben sperare

Tre sono i motivi per cui il politicamente corretto potrebbe avere vita breve, dice Chait: il primo è che molti pensatori liberal si sono finalmente accorti del problema, e iniziano a denunciarlo. Il secondo è che «i cambiamenti culturali provocati da queste idee hanno rapidamente messo in luce la loro intrinseca impraticabilità». I corsi di antirazzismo che dopo la morte di George Floyd sono stati imposti in ogni posto di lavoro sono arrivati a definire “supremazia bianca” le comunicazioni scritte, il pensiero lineare e scientifico, la pianificazione del futuro.

Il terzo motivo è la sconfitta di Donald Trump alle elezioni del 2020: paradossalmente, il più accanito avversario del pol. corr. è stato quello che ne ha accelerato il successo. Senza Trump da accusare di ogni nefandezza è più difficile tenere alto l’allarme democratico da combattere a colpi di woke.

La soluzione? È sempre a sinistra

E poi c’è la politica, costretta a fare i conti con la realtà dei risultati mediocri dei candidati democratici e di una probabile sconfitta alle elezioni di midterm. I democratici eletti «stanno vedendo quali sono le conseguenze di avere consentito ai membri più militanti del movimento progressista di “bullizzare” il partito ad adottare posizioni massimaliste su questioni come la chiusura delle scuole, l’applicazione delle leggi sull’immigrazione e la criminalità. Ora è molto più difficile per i progressisti descrivere, ad esempio, il sostegno all’applicazione della legge sull’immigrazione o l’opposizione al definanziamento della polizia come intrinsecamente razzista quando è chiaro che le comunità presumibilmente offese da quelle posizioni le supportano».

Terminata la lucida analisi, Chait cade nel solito difetto della sinistra che anche quando si definisce liberale in fondo pensa di essere l’unica depositaria della salvezza politica del mondo, alla cui guida deve restare comunque vadano le cose (e le elezioni). L’opinionista del New York Magazine pensa che bastino i pochi esempi di parte portati per fargli concludere che la soluzione è a portata di mano, ed è proprio là dove il problema è nato: «Nonostante tutte le sue colpe, il Partito Democratico è l’istituzione americana meglio attrezzata per respingere l’illiberalismo». Non disturbate il manovratore, in fondo è solo un compagno che sbaglia.

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