Le torture del regime o i crimini jihadisti? Il fallimento di Ginevra II avvicina la Siria alla secessione forzata

Né il governo né i ribelli riescono a vincere la guerra e secondo alcuni esperti la soluzione «più stabile e umanitaria» sarebbe una spartizione del paese "stile Bosnia”

Peggio di così i negoziati di Ginevra per mettere fine alla guerra civile in Siria non potevano cominciare. A parte gli scambi di invettive fra le due delegazioni siriane, quella governativa e quella dei ribelli della Coalizione nazionale siriana (Cns), le notizie che l’hanno preceduta e accompagnata sembravano studiate apposta sia per rendere impossibile qualunque compromesso fra i due fronti, sia per gettare nello sconforto e nell’imbarazzo l’Onu e i paesi che hanno organizzato la conferenza, cioè America e Russia. Al punto di far apparire come la sola via d’uscita e un male minore l’ipotesi alla quale tutti, nelle sedi internazionali come a livello siriano, si dicono contrari, ma che i fatti stanno configurando ogni giorno di più come la più probabile: lo smembramento e la spartizione della Siria in piccoli stati etnici e confessionali.

La vigilia del primo faccia a faccia, quello di Montreux, è stata preceduta dalla diffusione di foto che sarebbero state scattate presso i centri di detenzione segreti del regime. Immagini orribili di cadaveri recanti segni di torture e denutrizione, insieme alla denuncia da parte di un disertore che gli oppositori e i ribelli uccisi durante la prigionia sarebbero stati 11 mila nei tre anni della guerra. Contemporaneamente sono giunte notizie dalla provincia di Raqqa, da tempo controllata dai combattenti di Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Al Qaeda), che informano dei decreti emessi dai terroristi per governare la popolazione.
A partire dal 23 gennaio le donne sono obbligate a portare in pubblico il niqab (che nasconde completamente corpo e volto) e i guanti neri, gli uomini devono partecipare alle cinque preghiere canoniche obbligatoriamente, i negozi debbono abbassare le serrande durante tali preghiere, non si possono esporre fotografie di persone nelle vetrine dei negozi, è vietato suonare e ascoltare musica profana, vendere cd e strumenti musicali, fumare sigarette o la shisha (la pipa ad acqua). Chi dovesse violare queste regole, sarà punito a norma della sharia.

E infine quello che può essere considerato il bacio della morte all’opposizione anti-Assad sostenuta dai paesi occidentali: l’appello di Ayman Al Zawahiri, il leader supremo di Al Qaeda, perché tutti i ribelli, jihadisti e non jihadisti, cessino di battersi fra di loro come accade da molte settimane e ricomincino a combattere insieme contro il regime di Damasco.

Porre fine alla carneficina
Insomma, se augurarsi la vittoria di Assad è augurarsi il successo di un sistema abituato a torturare e giustiziare gli avversari, fiancheggiare i ribelli della Cns significa sostenere gente che non riesce a impedire ad Al Qaeda di governare città e territori siriani o che sembra destinata a riconciliarsi coi terroristi. Da qui la suggestione di una terza soluzione, presentata come l’unica maniera per mettere fine a una carneficina che ha già causato 130 mila morti, 2 milioni e mezzo di profughi, 9 milioni di sfollati interni e danni materiali incalcolabili: la spartizione del paese fra le forze che da tre anni se lo contendono.

Come ha scritto pochi giorni fa augurandosi un rapido armistizio David Owen, l’ex ministro degli Esteri britannico architetto insieme all’americano Cyrus Vance del piano di pace che nel 1993 cercò (invano) di mettere fine alla guerra per la Bosnia dividendola in dieci cantoni amministrati rispettivamente da serbi, croati e musulmani, «le linee del fronte che esistono al momento di concordare un cessate il fuoco tendono a convertirsi in permanenti, e la situazione sfocia con grandissima frequenza in una partizione di fatto, come accadde in Bosnia Erzegovina, o nell’apparizione di un nuovo stato, come in Kosovo».

In Siria nessuno è fautore di una soluzione del genere, anzi le parti in lotta si rilanciano l’accusa di voler distruggere l’unità della nazione. Entrambe sono ancora convinte di poter vincere la guerra con una sconfitta totale dell’avversario e quindi di poter prendere, ovvero riprendere, il potere su tutto il territorio nazionale. Invece chi guarda da fuori comincia a considerarla probabile, alla luce di alcune considerazioni ragionevoli. I governativi hanno recuperato un po’ di terreno e consolidato le loro posizioni a partire dal maggio scorso, ma non appaiono in grado di riconquistare quella metà circa di territorio nazionale, ad alta densità di popolazione sunnita, occupato dai vari gruppi ribelli; questi ultimi hanno perso lo slancio del 2012 e dei primi mesi del 2013 e si stanno pure combattendo fra loro: dunque non appaiono in grado di sconfiggere Assad; a loro volta però non possono essere spazzati dalla scena a motivo del loro numero (100 mila uomini) e dei limiti logistici delle forze governative.

Un intervento militare arabo-turco-occidentale a loro favore com’è stato in passato prefigurato non appare più all’ordine del giorno, da quando gli Stati Uniti si sono convinti che esso consegnerebbe la Siria del dopo-Assad non alla democrazia multipartitica, ma a una guerra fra bande sunnite di diversa tendenza e obbedienza e a uno stato di anarchia che avvantaggerebbe i terroristi di Al Qaeda. Anche l’eventuale uscita di scena di Assad e della sua nomenklatura, che continua a essere la richiesta numero uno della Cns e degli Stati Uniti, è chiaro a tutti che non porterebbe per incanto la stabilità nel paese.
Come ha scritto l’analista americano Michael O’Hanlon, «la deposizione di Assad non metterebbe fine alla guerra in Siria più di quanto la deposizione di Saddam Hussein nel 2003 ha portato stabilità all’Iraq»: gli alawiti, di cui Assad è un esponente, continuerebbero a combattere spalle al muro, convinti che in caso di resa sarebbero passati per le armi a migliaia o costretti a fuggire dal paese.

Ecco allora che, come ha scritto l’editorialista del New York Times nonché ex corrispondente da Beirut Thomas Friedman, «la partizione potrebbe essere la soluzione a lungo termine più stabile e umanitaria». Essa comporterebbe «una zona alawita lungo la costa, una zona curda nel nord-est e una zona sunnita nel resto del paese». Altri commentatori sono più dettagliati. Gary Gambill, del Foreign Policy Research Institute, vede una Siria dove «una molteplicità di ribelli sunniti arabi controllano ampi tratti del nord e dell’est, mentre il regime è dominante nella capitale e nelle principali città, nelle province costiere dove i sunniti sono pochi, e in un corridoio che collega questi territori. I curdi controllano piccole aree di confine nell’estremo nord-est. I drusi, fortemente concentrati nel sud-ovest della Siria, hanno formato milizie».
Per O’Hanlon la Bosnia è il modello di soluzione che bisogna ricercare per la Siria perché «offre la migliore chance di evitare un bagno di sangue su base confessionale in futuro». E Gary Gambill sostiene che «benché l’auspicio esplicito di una partizione, volontaria o forzata, sia un argomento tabù in Siria, risulta che gran parte degli alawiti, quasi tutti i curdi e molti cristiani e drusi preferirebbero una qualche forma di secessione o di estremo decentramento piuttosto che l’incerto esito di un governo di maggioranza, che sarebbe quasi sicuramente islamista, soprattutto se tale soluzione significasse una fine imminente dei combattimenti».

Le critiche alla separazione
Per la Siria non sarebbe una novità: al tempo del mandato francese negli anni Venti e Trenta era stata divisa in regioni amministrative concepite come veri stati di una federazione, e cioè lo stato di Damasco, lo stato di Aleppo, lo stato alawita, il Gebel druso e il Sangiaccato di Alessandretta. Le critiche alla soluzione spartitoria sottolineano che si tratterebbe di un ritorno ai tempi del colonialismo. Poi ci sono le obiezioni di tipo pratico. La prima è che, diversamente dalle guerre balcaniche degli anni Novanta, il conflitto siriano ha mescolato le popolazioni anziché separarle: gran parte dei 9 milioni di sfollati interni è rappresentato da sunniti arabi che si sono dovuti trasferire nelle province costiere (alawite), nel nord-est curdo e cristiano, nell’enclave drusa del sud.
Inoltre le principali città (Damasco, Aleppo, Homs e Hama) erano e restano multiconfessionali. La pulizia etnica ha colpito solamente villaggi di campagna e di montagna. È vero che molti sunniti sono fuggiti all’estero da zone sotto controllo governativo e che molti non sunniti hanno abbandonato le zone occupate dai ribelli.

Il principale problema, però, è un altro: «La dissoluzione della Siria significherebbe la fine dell’assetto Sykes-Picot, metterebbe in moto la dissoluzione di tutti gli stati artificiali creati dopo la Prima Guerra mondiale», ha lanciato l’allarme l’ex capo della Cia Michael Hayden alludendo all’accordo franco-britannico che nel 1916 tracciò i confini degli attuali stati mediorientali. E il romanziere e oppositore siriano Mustafa Khalifa: «Le conseguenze più negative nel caso di una spartizione della Siria sarebbero specialmente per Libano, Turchia e Iraq. Si creerebbe un precedente sul quale potrebbero appoggiarsi altri gruppi interessati all’esperienza siriana di partizione».

La lunga scia di violenza
Per Hayden una vittoria finale di Assad è preferibile al collasso della Siria, perché meno destabilizzante. Resta comunque un problema di fondo che le critiche storiche e pratiche all’ipotesi secessionista non possono risolvere, e che Fabrice Balanche, orientalista dell’università di Lione, riassume così: «I regimi nati con le indipendenze non sono riusciti a realizzare l’unità nazionale. L’unità territoriale funziona solo grazie all’autoritarismo. Di conseguenza, la messa in discussione dell’autoritarismo interroga l’avvenire delle costruzioni statali esistenti. Il paradosso è che, quando si evoca la riscrittura della mappa del Medio Oriente, quegli stessi dirigenti accusano l’Occidente di una nuova impresa coloniale. Ci si può tuttavia legittimamente porre la questione della sostenibilità delle entità statali attuali in Medio Oriente, della delimitazione di nuove frontiere che forse avrebbero più senso per le popolazioni. Ma bisogna essere coscienti della scia di violenza che ciò comporterebbe. Si tratta di una tappa necessaria per ottenere una stabilità durevole nel futuro? Il processo non è già cominciato in Iraq e in Siria?». Per ora gli interrogativi sono senza risposta.

@RodolfoCasadei

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