Le radici dell’albero pakistano

Il difficile equilibrio del paese a metà tra il Medio e l’Estremo Oriente, sempre in bilico tra minacce terroristiche e gli interessi delle potenze globali. Reportage

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – REPORTAGE DA KARACHI. Per strada tutti gli uomini sono vestiti con un abito tradizionale chiamato shalwar qamiz, mentre le donne sono ricoperte da tessuti colorati e sgargianti. Alcune hanno il capo coperto, altre mostrano discretamente i loro capelli sciolti. Nella Repubblica islamica del Pakistan il velo non è una questione di Stato, a decidere per le proprie figlie sono i genitori a seconda del loro attaccamento alla religione. Del resto non c’è legge, dettato, prepotenza che possa cancellare l’identità di questa terra che si estende dai monti innevati confinanti con la Cina e l’Afghanistan, fino alla pianura dell’Indo passando dagli altopiani del Belucistan e dal deserto di Thar e del Cholistan, e ospita popolazioni completamente diverse fra loro. Il Pakistan è una Babele etnica dove il sistema tribale intriso di dialetti convive con un islam che parla urdu. Ciò che colpisce è infatti la grande varietà dei tratti somatici: ci sono rifugiati afghani con gli occhi a mandorla, alti pashtun con lo sguardo fiero e la pelle chiara, magri sindhi di carnagione scura, discendenti dagli antichi invasori ariani punjabi, e poi ci sono quegli indo-europei sparsi nell’area settentrionale, tra le montagne dell’Hindukush, che hanno conservato gli occhi azzurri e un naso aquilino (tra questi ci sono i Kalash, una comunità fedele ad un’antica religione politeista di origini sconosciute).

Crocevia di civiltà e popoli, centro nevralgico della Via della Seta, il Pakistan è diventato col passare dei secoli un paese a maggioranza musulmana che pertanto non ha mai dimenticato la sua storia pre-islamica che parte dalla città di Taxila, capitale del Regno di Gandhara, unico luogo al mondo in cui l’arte greca portata da Alessandro Magno si mescola con quella buddista. L’accettazione del passato, così come la tolleranza verso le minoranze religiose, deriva in gran parte dal sentimento diffuso del sufismo, un islam metafisico, quasi monacale, attento alla diversità etnica e linguistica di questa regione, capace fin dall’inizio di creare una sintesi tra il messaggio di Maometto e lo spirito del luogo. Ancora oggi i santuari di questa corrente mistica contaminata dallo spiritualismo cristiano ospitano in tutto il paese persone appartenenti a qualsiasi credo religioso tra danze roteanti e musiche sensuali.

La “terra dei puri” che nasce sui versetti poetici di Muhammad Iqbal fino ad arrivare alle gesta di Abdul Edhi viene considerata da una minoranza attiva, armata e organizzata uno “Stato di miscredenti”. È questa l’accusa che i gruppi terroristici utilizzano per giustificare la maggior parte degli attacchi contro civili e governativi. Il Pakistan viveva in un clima di relativa sicurezza ma è bastato poco a farlo sprofondare nel caos. Tra lunedì 13 e sabato 23 febbraio il paese ha conosciuto infatti alcuni dei giorni più bui da quando questo territorio è diventato terreno di scontro tra le tante fazioni nate all’indomani della creazione di Al Qaeda. Più di dieci attacchi in dieci giorni per un totale di oltre centocinquanta morti e centinaia di feriti. Un’ondata di sangue e violenza alimentata da attentati kamikaze in luoghi di culto, offensive contro postazioni delle forze sicurezza, raid antiterrorismo ed esecuzioni sommarie. La più grave di tutte per numero di morti e valore simbolico – 88 e 150 feriti – è stata la strage rivendicata dall’Isis nel santuario sufi Lal Shahbaz Qalandar situato a Sehwan, nella provincia meridionale del Sindh, che radunava i fedeli musulmani – sciiti e sunniti – venuti a celebrare l’antico rituale del Dhamal. Non solo si è trattato dell’attentato più violento registrato in Pakistan dal massacro del dicembre 2014, quando i talebani del Ttp fecero irruzione nella scuola pubblica militare di Peshawar uccidendo 154 persone, ma soprattutto ad essere pugnalato è stato il cuore pulsante (la comunità sufi ha subito negli ultimi dieci anni 29 attacchi) della convivenza etnica e religiosa del Pakistan.

«Il problema è l’Arabia Saudita»
Da un mese a questa parte c’è massima allerta in tutto il paese, le forze speciali “Rangers” sono state dispiegate ad ogni angolo delle principali città: Karachi, Quetta, Islamabad, Lahore, Peshawar. Nel frattempo, nei circoli politici-culturali, ci si interroga su chi ci sia dietro a tutto questo. Una parte degli analisti sostiene che i gruppi terroristici hanno avuto il tempo di riorganizzarsi in quest’ultimo periodo e hanno aspettato il momento opportuno per colpire capillarmente tutto il Pakistan e minacciare direttamente i vertici dello Stato, altri invece pensano che l’Isis, indebolito in “Siraq”, dopo aver tentato invano di spostare il quartier generale in Libia, sia intenzionato a trasferirsi nell’Af-Pak, la regione che separa l’Afghanistan dal Pakistan. H.M Naqvi, scrittore nonché autore del romanzo Home boy pubblicato in Italia da Il Saggiatore, smentisce così questa seconda tesi: «Daesh per quanto si dica islamico, rimane un fenomeno arabo che non può attecchire dalle nostre parti dove vigono altre leggi, spesso tribali e vivono etnie diverse fra loro». Non è un caso che i talebani afghani (diversi da quelli pakistani), pur avendo in passato accettato di “convivere” con Al Qaeda per opportunismo economico si siano scontrati con i gruppi affiliati all’Isis e abbiano rivendicato più volte la loro autonomia rispetto al Califfato. Il jihad non è una cena di gala, e non sempre tutti gli invitati sono pronti a dividersi la torta.

Da qui a partire dal 2015 l’Isis ha effettuato diversi attacchi in Pakistan, ma, nonostante queste azioni terroristiche, si ritiene che allo stato attuale non disponga di una vasta e ramificata organizzazione estesa a livello nazionale, ma è comunque riuscito ad attrarre nella sua orbita gruppi salafiti pakistani come Lashkar-e-Jhangvi Al Alami e Jamaat-ul-Ahrar, entrambi distaccatisi dai talebani pakistani e accomunati dall’odio nei confronti degli sciiti e delle altre minoranze religiose presenti nel paese. Lo stesso Joseph Coutts, arcivescovo cattolico di Karachi, non sembra avere molti dubbi sulle origini di questa scia di sangue. «I terroristi – ci dice in un ufficio della cattedrale di San Patrick – vorrebbero che il Pakistan fosse una repubblica islamica a tutti gli effetti. Per quanto questo paese venga chiamato Repubblica islamica del Pakistan, il padre fondatore Muhammad Ali Jinnah era un laico che aveva iscritto nella Costituzione che la religione rimaneva un fatto privato e che le minoranze dovevano essere rispettate», spiega a Tempi all’indomani dell’attentato al santuario sufi. «L’islam in sé non è un problema per noi cristiani, il problema è il wahabismo, una corrente dominante in Arabia Saudita che i sauditi stanno esportando qui da noi. Gli stessi sauditi alleati degli Stati Uniti, coloro che danno lezioni al mondo su diritti umani e democrazia».

Zona franca d’Eurasia
Eccetto che per la legge sulla blasfemia molto contestata nel paese da una ristretta élite musulmana, la convivenza tra i gruppi etnici-religiosi, così come la libertà di culto, esiste e si può incontrare la domenica nelle chiese stracolme di fedeli, nei templi zoroastriani, nella piccola libreria situata a Saddar, il quartiere più popolare di Karachi, e gestita quotidianamente da suor Daniela e suor Agnese, due missionarie italiane che vivono in Pakistan da più di 35 anni, o ancora nel liceo cattolico Saint Laurent (tra i più importanti del Paese, frequentato persino da Benazir Bhutto, il primo ministro donna della storia pakistana) dove studenti musulmani e cristiani percorrono insieme gli studi. Sebbene in parlamento le comunità siano rappresentate da deputati votati dalle comunità stesse, la discriminazione permane nello spazio pubblico dove l’islam è dominante e per i fedeli di altre religioni non esiste la libertà di evangelizzazione. E quando si è discusso di modificare o abrogare la legge sulla blasfemia sono arrivate le pressioni da parte dei gruppi fondamentalisti i quali hanno fatto ricorso a operazioni impietose come nel 2011: in un solo anno furono assassinati Salman Taseer, governatore del Punjab, e Shahbaz Bhatti, ministro delle minoranze religiose, entrambi “aperturisti” sul piano intra-religioso.

È in questo contesto che il Califfato ha puntato sul Pakistan per estendere il suo network internazionale di alleanze. Il paese è il secondo per numero di musulmani al mondo, secondo solo all’Indonesia. Il 97 per cento dei suoi quasi 200 milioni di abitanti (le stime ufficiose ne calcolano 230 milioni) è infatti di fede musulmana. Di questi, il 75 per cento è di credo sunnita mentre il 25 è di credo sciita. Una minoranza forte che, al pari delle altre confessioni minoritarie del paese (induisti, cristiani, ismaeliti, zoroastriani, ecc.) finisce continuamente nel mirino dei terroristi.

Ufficialmente ci sono 35 mila madrasse e sono finanziate per ordine di importanza da Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Turchia, e molti di quei gruppi terroristici che rivendicano attentati sono coperti dalle autorità perché riutilizzabili per esercitare pressione sull’Afghanistan e in particolare l’India che in questi ultimi anni sta facendo di tutto per ostacolare l’emancipazione economica del Pakistan, soprattutto dopo il lancio del progetto Cpec (China–Pakistan Economic Corridor), un piano infrastrutturale da oltre 50 miliardi di dollari che unirà attraverso una vasta rete ferroviaria e autostradale la città portuale di Gwadar alla Cina sud-occidentale (Kashgar, nello Xinjiang) a maggioranza musulmana. La Cina conquisterà la sua prima finestra nel mar arabico che gli consentirà di aggirare la rotta commerciale che passa attraverso lo stretto di Malacca, mentre il Pakistan otterrà una “profondità strategica” al nord fondamentale per ritagliarsi uno spazio geopolitico nella regione.

A frenare l’influenza delle madrasse, così come le mire espansionistiche dei loro sponsor, sono ancora i militari che in parte tengono in pugno il governo Sharif, i quali, oltre a custodire l’atomica, controllano le relazioni diplomatiche e un gran pezzo dell’economia. Sono loro infatti ad aver trasformato il paese in una zona franca decisiva negli assetti dell’Eurasia. Il Cpec ha sostanzialmente allontanato il Pakistan dagli Stati Uniti – che nella regione hanno scelto l’alleato indiano – gettandolo nella sfera d’influenza della Cina. Allo stesso modo se è vero che Riyadh offre garanzie sul piano geopolitico, militare e religioso è altrettanto vero che Islamabad non può rinunciare agli accordi economici ed energetici con Teheran. Recentemente il premier Sharif ha dichiarato l’intenzione di voler mantenere un atteggiamento il più possibile equidistante rispetto alla rivalità tra i due giganti della regione, seppur nel 2015 il parlamento pakistano abbia votato all’unanimità contro l’intervento in Yemen al fianco dell’Arabia Saudita contro i ribelli sciiti Houthi sostenuti dall’Iran.

Il 60 per cento ha meno di 25 anni
Così il Pakistan sembra giocare una partita dettata dalla sua geografia: punto di congiunzione tra il Medio e l’Estremo Oriente, paese schiacciato tra il mare e la Cina, tenta di ritagliarsi uno spazio regionale indipendente. A rafforzare questa posizione è una domanda interna di 200 milioni di persone e una popolazione giovane che crede nell’avvenire (del resto sono sempre di più i pakistani che studiano all’estero e tornano per occupare ruoli chiave nell’élite). Alcuni analisti lo considerano un paese di frontiera ma di grande prospettiva.

Tra questi c’è anche Federico Arata, imprenditore italiano che sta scrivendo un libro proprio sull’argomento: «Non è il migliore dei mondi, non esiste il migliore dei mondi, ci sono dei problemi, ma il futuro è dalla loro parte. Il 60 per cento ha meno di 25 anni, la classe media è in crescita, ci sono molte materie prime non sfruttate, è un paese che non basa la propria economia sul petrolio ma sul lavoro delle sue piccole e medie imprese, l’industria nata sul tessile ha saputo diversificarsi, senza dimenticarci dell’agricoltura, il Pakistan ha dodici clima diversi. È come un grande albero. Ci possono essere attentati terroristici, cadranno le foglie, si spezzeranno i rami, ma rimarrà in piedi perché ci sono delle radici profonde, questo popolo conosce la cultura e si fonda sulla religione, la famiglia e uno spirito caritatevole. In più, parallelamente alla classe media, si sta sviluppando una società civile, culturale e intellettuale che fa solo bene agli sviluppi della politica nazionale».

@secaputo

Foto Ansa

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