Il solito razzismo degli antirazzisti

Non solo New York Times. Si moltiplicano in America i casi di giornalisti spinti alle dimissioni o silenziati perché critici verso le rivolte (diversamente) violente contro la polizia

Di solito è il razzismo degli antirazzisti a rovinare tutto, e le polemiche intorno alle manifestazioni di protesta per l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, convocate al grido di “Black Lives Matter” e degenerate in rivolte violente, devastazioni e razzie in decine di città degli Stati Uniti, non fanno che confermare la regola. 

Non c’è solo il caso della foto di Hitler ritoccata per riecheggiare Donald Trump che esibisce la Bibbia ai fotografi, un meme imbarazzante e però rilanciato come autentico anche dai profili social di tanti giornalisti ed esperti fustigatori di fake news e “odio in rete”.

Non c’è solo Twitter che censura il messaggio di Trump sul “saccheggiare” (looting) che spinge le forze dell’ordine a “sparare” (shooting). Mentre invece Mark Zuckerberg, boss del network rivale Facebook, si ritrova metaforicamente fustigato in piazza da pool organizzati di esperti e intellettuali e pure dai suoi stessi dipendenti per eccessiva tolleranza verso la libertà di parola del presidente (chi è Zuckerberg per non censurare?). 

In fondo tutto questo può ancora apparire come poco più di un innocuo gioco delle parti virtuale, anche se innocuo non lo è affatto in realtà, visto che Twitter e Facebook, come ha ottimamente scritto qualche giorno fa Mattia Feltri sulla Stampa, «sono piattaforme su cui vanno tutti, su cui si svolge tre quarti della vita pubblica e nelle quali circola il grosso delle informazioni, e chi controlla l’informazione controlla il mondo». Comunque, se fin qui lo scontro polemico era limitato a un ambiente – i social network – dove la lotta nel fango è all’ordine del giorno, non si può restare indifferenti agli inquietanti segnali di intolleranza che arrivano dalle grandi blasonatissime testate giornalistiche americane.

Come è ormai abbastanza noto, due giorni fa si è dimesso di James Bennet, capo della sezione “opinioni” del New York Times, travolto dalle rimostranze della redazione per aver dato disco verde a un commento del senatore Tom Cotton a sostegno della proposta di Trump di impiegare l’esercito per sedare le rivolte che stanno mettendo a ferro e fuoco mezza America. La resa di Bennet ha fatto scalpore, e giustamente, perché il New York Times è un gigante dell’informazione mondiale che si è sempre fatto un vanto, dalle sue posizioni di sinistra, di sapersi aprire al dibattito: non ha forse le spalle abbastanza larghe per ospitare le idee, per quanto dure, di un politico repubblicano, per giunta in una sezione dedicata esattamente a commenti non per forza in linea con il giornale?

Ma il caso del New York Times non è l’unico, piuttosto è il segnale di un argine che si è rotto: nel nome dell’antirazzismo il settarismo di sinistra rischia di diventare una piena incontrollabile. Ne ha fatto le spese, a quanto pare, anche Andrew Sullivan, a cui il prestigioso New York magazine ha vietato di occuparsi delle rivolte. Come nota ironicamente lo Spectator, «con ogni probabilità la direzione teme che il suo miglior opinionista possa tirare fuori l’argomento radicalmente borghese secondo cui il saccheggio e la violenza sono sbagliati». Un vero paradosso per «la rivista che nel 1970 pubblicò Radical Chic di Tom Wolfe, brillante e controversa stroncatura della pietà progressista», imbavagliare proprio Sullivan, che è «un vero liberal – un gay che ama Obama e pensa che le “pericolose fantasie” di Trump minaccino l’America».

Poi c’è la vicenda di Stan Wischnowski, caporedattore del Philadelphia Inquirer, uno dei giornali più importanti degli Stati Uniti, 191 anni di storia alle spalle e chissà quante battaglie per la libertà di espressione. Come Bennet, anche per Wischnowski le polemiche sulle rivolte sono state fatali. Non gli hanno perdonato il titolo di un articolo apparso nell’edizione del 2 giugno: “Buildings Matter, Too” (Anche gli edifici contano), titolo che faceva ovviamente il verso a “Black Lives Matter” (Le vite dei neri contano), lo slogan preferito delle proteste contro la violenza della polizia nei confronti degli afroamericani.

Adesso quel titolo non c’è più. È sparito con il caporedattore che ne è stato ritenuto il responsabile (dimissioni anche per lui). In compenso, in testa all’edizione online dell’articolo, campeggia un distico che ricorda quanto fosse «offensivo e fuori luogo» quel titolo e che «non avremmo dovuto pubblicarlo», e che «le nostre semplici scuse non bastano, dobbiamo fare meglio». A Wischnowski non è bastato nemmeno cofirmare un editoriale di scuse tutto pieno di promesse che l’Inquirer d’ora in poi sarà più attento ai «contenuti sensibili» e rispettoso delle varie «sensibilità culturali» e impegnato a costruire una redazione aperta alle «diversità» che «meglio rifletta la comunità a cui ci rivolgiamo». Tanto meno sono bastati i 20 anni di onorato servizio di Wischnowski a cancellare l’affronto.

Scrive il New York Times:

«Mercoledì, alcuni membri della redazione hanno inviato una lettera al management, “Lettera aperta dei giornalisti di colore al Philadelphia Inquirer”, annunciando che l’indomani si sarebbero dati malati, e lo hanno fatto a dozzine».

La lettera aperta dei giornalisti di colore è firmata da 44 persone. Si legge nel testo:

«Siamo stanchi di sentir parlare del progresso dell’azienda e di sentirci ripetere luoghi comuni su “diversità e inclusione” quando solleviamo le nostre preoccupazioni. Siamo stanchi di vedere le nostre parole e le nostre foto distorte per entrare in una narrazione che non riflette la nostra realtà. Siamo stanchi di sentirci dire che dobbiamo mostrare entrambi i lati di problemi di cui non esistono due lati».

Notevole la battuta sui problemi che non hanno due lati. David Boardman, presidente del Lenfest Institute for Journalism, l’ente no profit proprietario del Philadelphia Inquiry, commentando per il New York Times la notizia delle dimissioni di Wischnowski fa un sacco di complimenti al suo ormai ex caporedattore, riconoscendogli di essersi sbattuto «per decenni» a favore «della diversità, dell’equità e dell’inclusione». Evidentemente, però, quando le cose si appiattiscono su un solo lato, l’altro lato non conta più molto. Peccato.

Ma inutile rimpiangere quel che è stato, il mainstream ormai ha preso una direzione ben chiara e non si può fermare. L’andazzo è generale, c’è un clima di rivolta antirazzista in tutte le «grandi redazioni d’America», osserva eccitato in un apposito reportage il New York Times, ben felice, liberata la scrivania di Bennet, di dare il benvenuto dalla parte giusta della storia al rivale Washington Post

«Ora, mentre l’America lotta con il culmine di uno slancio che è iniziato nell’agosto del 2014, le sue maggiori redazioni cercano di trovare un terreno comune fra una tradizione che mira a convincere il pubblico più ampio possibile che la sua informazione è neutrale e giornalisti convinti che l’onestà su questioni che vanno dalla razza a Donal Trump richieda chiari richiami morali». 

Quando si tratta di razza e razzismo, «il valore fondamentale dev’essere la verità, non la percezione dell’oggettività», dice un collega del Washington Post al reporter del New York Times. E in effetti, nota quest’ultimo, «le grandi testate hanno gradualmente, maldestramente, iniziato a usare le parole “razzista” e “bugia” con maggiore libertà, specialmente per descrivere il comportamento di Mr. Trump». 

Curioso, fra parentesi, il fatto che questo strenuo sforzo dei grandi giornali per «la verità» poi finisca spesso per consumarsi nell’appello a non chiamare violenza la violenza (vedi per esempio il Guardian). Operazione che somiglia tanto a un tentativo di confondere «verità» e «percezione dell’oggettività» per insinuare l’idea che chi critica le devastazioni in fondo sta con il poliziotto bianco che ha ucciso Floyd.

Ha scritto Maurizio Molinari su Repubblica che «l’uccisione di Floyd viene vissuta dalla maggioranza degli americani – democratici o repubblicani, liberal o conservatori – come (…) il rischio che il fallimento del sogno di Obama assuma dimensioni tali da minacciare l’eredità di Abramo Lincoln e Martin Luther King, travolte da un’avversione per il prossimo che è la negazione dei princìpi e dello spirito della Costituzione americana». E questo non solo perché dopo gli otto anni alla Casa Bianca dell’uomo che voleva unire l’America, gli afroamericani continuano a essere uccisi dalla polizia come prima. Il sogno di Obama è fallito anche per un altro motivo che Molinari lascia intendere con delicatezza (dirige Repubblica da pochi giorni, meglio andarci piano): perché la pretesa di unire il paese nel nome dell’antirazzismo non può funzionare, il rischio di scivolare nell’intolleranza è praticamente una certezza.

Che idea populista e divisiva è, per esempio, quella di fare giustizia per Floyd smantellando la polizia come sta avvenendo a Minneapolis e a New York, come se la polizia fosse razzista per il fatto stesso di essere polizia?  

Solo a Minneapolis sono stati dati alle fiamme più di 50 edifici, e quando brucia la città, brucia per tutti, destra e sinistra, neri e bianchi. Accusare di razzismo chi osa chiamare tutto questo violenza, questo sì che è razzismo.

Prosegue il reportage del New York Times. celebrando la fine dell’ipocrisia di un giornalismo che tentava di essere obiettivo:

«Il cambiamento nei media mainstream americani – guidato da un giornalismo più personale e da cronisti più desiderosi di dire quel che vedono come vero senza paura di alienarsi i conservatori – ora appare irreversibile».

Foto Ansa

Exit mobile version