Il rabbino David Rosen: «In Israele la gente ha bisogno di sentire la solidarietà dei cattolici»

Il religioso amico di Benedetto XVI: «I rapporti con la Chiesa? Mai stati migliori. Da papa Francesco un impegno unico. È importante che gli ebrei conoscano il messaggio di amore dei cristiani. Troppi pregiudizi nella nostra storia»

Riproponiamo un’intervista del quotidiano spagnolo La Razón al rabbino David Rosen, pubblicata nell’edizione odierna dell’Osservatore Romano. Il rabbino Rosen, spiega il quotidiano vaticano, è «amico personale di Benedetto XVI» e «protagonista autorevole dello sviluppo del dialogo tra le religioni e, in particolare, dell’amicizia con i cristiani».

L’intesa dell’ebraismo con le altre religioni, soprattutto con quella cattolica, è una delle sue priorità e forse per questo David Rosen si è rivelato come una delle personalità più importanti e influenti in tale ambito. Il direttore internazionale degli Affari Interreligiosi dell’American Jewish Committee e dell’Istituto Heilbrunn per il Dialogo Interreligioso partecipa spesso a riunioni e incontri in Vaticano e ha conosciuto da vicino Giovanni Paolo II. Una particolare amicizia lo lega a Benedetto XVI e ha già potuto conversare con Papa Francesco, che ammira profondamente.

Come arcivescovo di Buenos Aires, Papa Francesco si è contraddistinto per la sua vicinanza, amicizia e affetto verso il popolo ebreo. E ora, come vescovo di Roma, mantiene questo atteggiamento. Siamo di fronte a una nuova tappa nei rapporti tra i due popoli?
I rapporti non sono mai stati migliori. La differenza non è sostanziale rispetto agli anni precedenti, ma lo stile di Francesco è diverso, è favorevole. Papa Benedetto XVI voleva bene agli ebrei ed era anch’egli molto favorevole alle relazioni tra i due popoli, ma Francesco sta mostrando un forte impegno, che è unico. Credo che persino lui ne sia rimasto sorpreso. Può essere opera dello Spirito Santo, ma sta di fatto che ha dato un’immagine nuova della Chiesa, in particolare dell’amicizia con il popolo ebreo.

Molti cattolici ancora non conoscono la dichiarazione Nostra aetate. Che cosa ha significato questo documento da quando Paolo VI l’ha approvato nel 1965?
È una rivoluzione e non è esagerato chiamarla così. Grazie a questo documento i giovani di oggi non hanno più quei pregiudizi verso gli ebrei che esistevano prima. Per quasi duemila anni si è ritenuto che gli ebrei fossero maledetti e condannati da Dio. Venivano visti come nemici della Chiesa, addirittura come alleati del demonio. C’è stato un cambiamento enorme nella storia. Da incarnazione del demonio sono diventati fratelli amati, soprattutto a partire da Giovanni Paolo II. Non c’è nulla di analogo nella storia dell’uomo: diventare da nemico terribile un amato fratello. Questo cammino è stato possibile grazie a Giovanni XXIII e al concilio Vaticano II e naturalmente alla Nostra aetate. Giovanni Paolo II gli ha dato l’impulso finale.

Papa Francesco ha affermato in diverse occasioni che non si può essere cristiani antisemiti. Che cosa si può fare per sradicare questo sentimento?
La prima cosa che occorre fare è far conoscere la Nostra aetate. La gente deve conoscere gli insegnamenti del magistero vaticano a partire da questa dichiarazione. Ho incontrato alcuni sacerdoti e vescovi che non la conoscevano, il che significa che non ha fatto parte della loro formazione mentre si tratta di un passaggio fondamentale. La formazione non si può affidare solo ai sacerdoti e ai vescovi, la Chiesa è molto di più. I movimenti e i carismi della Chiesa, specialmente il Cammino Neocatecumenale, hanno, e stanno sviluppando, una responsabilità fondamentale in questa educazione. Dobbiamo superare le ferite della storia, dobbiamo “passarle” dal male al bene perché Dio vuole che ci amiamo, che ci sia un amore speciale tra cristiani ed ebrei.

Alla fine di giugno Auschwitz ha ospitato una celebrazione in memoria delle vittime dell’Olocausto a cui hanno partecipato importanti rabbini, cardinali e vescovi e dove è stata eseguita una sinfonia sulla sofferenza. Anche lei era presente. Che cosa ha significato questo atto per gli ebrei?
Concerti simili sono stati organizzati anche in altri luoghi, ma quello di Auschwitz è stato la testimonianza più potente dell’amore che c’è tra noi. Ma la maggior parte degli ebrei, soprattutto in Israele, non conosce ancora questi cambiamenti. Molti non hanno ancora conosciuto un cristiano moderno. Quando viaggiano fuori da Israele incontrano le persone come “non ebrei” e non come cristiani moderni. È molto importante che gli ebrei conoscano il vero messaggio d’amore dei cristiani, ma non è semplice perché ci sono molti pregiudizi nella nostra storia. Bisogna farlo in modo intelligente per avere successo, ma anche perché non ci ritorni indietro come un boomerang.

La sofferenza è qualcosa che i due popoli hanno in comune. È uno dei punti che sta favorendo un maggiore avvicinamento?
Perché io possa sapere che tu capisci la mia sofferenza devo aprirmi a te. E se io penso che tu sei stato l’origine della mia sofferenza, all’inizio non posso aprirmi a te. Per riuscire a farlo ho bisogno di sentire la solidarietà dell’altro. Specialmente in Israele la gente ha bisogno di sentire la solidarietà dei cattolici e ciò aprirà la via a questioni più profonde.

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