Il processo farsa a Jimmy Lai

Non si può abbandonare ora Jimmy Lai, perché con lui il regime comunista processa la democrazia e la libertà a Hong Kong

Una foto di Jimmy Lai in carcere

È terminato il secondo giorno dello storico processo a Jimmy Lai a Hong Kong e già si inizia a intravedere ciò che il figlio Sebastien dichiarava a Tempi durante un’intervista a Taipei un mese fa: «È chiaro che si tratta di una farsa, una parodia della giustizia per la quale mio padre rischia l’ergastolo».

L’accusa di sedizione è illegale

In un’aula di tribunale gremita di gente, davanti all’imprenditore 76enne, apparso notevolmente smagrito, l’avvocato difensore di Lai, Robert Pang, ha fatto notare che il suo assistito non può essere condannato per il capo di imputazione di «cospirazione alla pubblicazione di materiale sedizioso». L’accusa di sedizione, infatti, va formalizzata al massimo sei mesi dopo il compimento del reato secondo la legge.

Nel caso del famoso editore pro democrazia, fondatore del giornale ora chiuso dalle autorità Apple Daily, l’articolo «sedizioso» incriminato è stato pubblicato l’1 aprile 2019. L’ultimo articolo incriminato, invece, è del 24 giugno 2021. L’accusa di sedizione, però, è stata formalizzata solamente il 28 dicembre: con quattro giorni di ritardo.

Il “mistero” del processo a Jimmy Lai

Il primo capo di imputazione, dunque, dovrebbe già cadere ma i tre magistrati selezionati dal governo per giudicare Jimmy Lai, in barba alla consuetudine che prevede la giuria popolare, hanno aggiornato il caso a venerdì, quando daranno un responso sulle argomentazioni della difesa.

Uno dei tre giudici, Alex Lee, ha detto in aula che è vero che per formalizzare l’accusa il tempo massimo è di sei mesi. Non è chiaro però, ha aggiunto, quando «il tempo inizi a decorrere». Come faccia un giudice a non saperlo e a ignorare che il momento non può essere altro che il giorno in cui è stato compiuto il reato contestato è un mistero.

Joseph Zen, 91 anni, al processo di Jimmy Lai

Il cardinale Zen non abbandona il suo amico

Ma in realtà, non c’è alcun mistero. Il Partito comunista cinese ha definito da tempo Jimmy Lai il principale responsabile dei «disordini» che si sono verificati nel 2019 e ha già emesso un verdetto di colpevolezza. In quei giorni di quattro anni fa, Pechino si spaventò temendo davvero di poter perdere il controllo dell’ex colonia britannica.

Così fece approvare illegalmente la legge sulla sicurezza nazionale, per imporre uno stato di terrore e arrestare chiunque osi opporsi, anche solo con il pensiero, al Partito comunista cinese. Jimmy Lai, cattolico fervente battezzato dal cardinale Joseph Zen, che lunedì a 91 anni era in aula per sostenere il suo amico, campione della libertà e della democrazia, è stato arrestato nel dicembre 2020 e condannato in quattro diversi processi farsa, per cui si trova in carcere da più di 1.100 giorni.

Democrazia e libertà sono a processo

Ma il processo chiave è quello iniziato il 18 dicembre (con un anno di ritardo) e l’accusa di sedizione non è che l’antipasto. Lai deve infatti rispondere di collusione con forze straniere per rovesciare il potere statale. Il reato introdotto dalla legge sulla sicurezza nazionale, e applicato retroattivamente, prevede una pena che arriva fino all’ergastolo, da scontare (potenzialmente) nella Cina continentale.

È inutile girarci intorno: al termine degli 80 giorni – durata prevista del processo – Lai sarà condannato e il regime comunista userà la condanna per mandare un chiaro avvertimento a tutti coloro che si battono per la libertà e la democrazia a Hong Kong e in Cina: scordatevele entrambe, state zitti e buoni o farete la fine di Jimmy Lai.

Il coraggio e la fede di Jimmy Lai

L’imprenditore, del resto, sapeva che sarebbe finita così, sapeva che sarebbe stato arrestato. Poteva scappare, ma decise di restare a Hong Kong per difendere con la testimonianza personale la sua città. «La fede gli ha insegnato a distinguere tra il giusto e lo sbagliato, tra il bene e il male», ha dichiarato il figlio Sebastien a Tempi. «Diventando cattolico ha scoperto che nella vita ci sono cose più importanti dei soldi. Ad esempio la libertà individuale, qualcosa cui teneva molto essendo scappato su una barca di pescatori verso Hong Kong dalla Cina comunista quando aveva solo 12 anni. Ora sta sacrificando tutto ciò che ha per difendere quella libertà. Sa di essere chiamato a questo e non si è voluto tirare indietro».

Lo stesso Jimmy Lai, in un’intervista due mesi prima dell’arresto, disse a Tempi: «Faccio parte del movimento pandemocratico fin dai suoi albori, o almeno a partire dal 1989. Oggi ho 72 anni (li compirà l’8 dicembre, ndr) e non vedo che senso possa avere per me scappare. Hong Kong è la mia casa, mi ha dato tutto ciò che ho: perché dovrei andarmene da casa mia? Dio ha un piano per tutti noi e quando metti il tuo destino nelle mani di Dio ti senti così leggero, con meno pressione addosso. Dio mi ha dato tanto e io provo un’enorme gratitudine».

Non si può abbandonare ora Jimmy Lai, perché con lui il regime comunista processa la democrazia e la libertà a Hong Kong.

@LeoneGrotti

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