Il Berchet di Milano punta sulla «equità valutativa». Il risultato è «una scuola disastrosa, senz’anima»

Il liceo classico Berchet di Milano decide di far correggere i compiti di una classe ai professori di un'altra per garantire «equità». Intervista alla scrittrice e insegnante Paola Mastrocola: «Questa scuola mi fa paura».

Al famoso liceo classico Berchet di Milano, la correzione dei compiti in classe sarà «trasversale». Gli insegnanti della classe A, cioè, correggeranno i compiti della classe B. La novità sarà introdotta per volere del preside Innocente Pessina e servirà a garantire «più equilibrio» nelle valutazioni e «più equità» agli studenti, rivela il Corriere della Sera. «Se quello che vogliamo è una scuola senz’anima, condita da prove asettiche, il preside ha fatto un’ottima scelta» commenta a tempi.it Paola Mastrocola, scrittrice e insegnante di lettere al liceo Augusto Monti di Chieri.

Il liceo Berchet vuole così garantire «equità valutativa» e fermare «certi insegnanti sadici» che usano «il voto come manganello». Che ne pensa?
Non sono per niente stupita, è un intervento in linea con la direzione che abbiamo preso da qualche anno, una direzione disastrosa.

Perché disastrosa?
Rincorriamo il mito dell’oggettività, della misurazione scientifica. Però ci sono cose non misurabili nella vita, anche in quella scolastica. Il problema è che noi vogliamo una scuola che misuri oggettivamente, per questo è da un po’ di anni che si è diffusa come prova il test. In questo modo si può cambiare il docente che corregge, basta che il test sia il più possibile oggettivo e tecnico. A me una scuola che va in questa direzione non piace. Stiamo abolendo non solo il rapporto personale tra studenti e insegnanti ma anche la soggettività sia dell’insegnamento che dell’apprendimento. Tutto deve essere appiattito perché sia misurabile con criteri standard nazionali, europei, mondiali.

L’oggettività a tutti costi che cosa toglie all’insegnamento?
Io penso alla mia materia, insegno italiano in un liceo: da dieci anni tutti i ministri hanno abolito il cosiddetto tema, che era la prova più creativa, libera e bella. Al suo posto abbiamo le verifiche oggettive, i test a domanda multipla, delle prove asettiche insomma. In questo modo magari guadagniamo l’oggettività, ma il ragazzo non è più messo nella condizione di esprimere ciò che è lui, singolarmente, la sua ricchezza. Ecco, si perde il valore dell’originalità individuale.

«Equità»: è questo lo scopo della scuola?
Ormai queste parole vanno di moda, ma non so bene che cosa vogliano dire. Il problema della diversità degli insegnanti c’è da sempre: come si diceva una volta, sei finito in quella sezione e con quell’insegnante avrai voti più bassi o più alti. È vero, si rischia di avere sette o otto, a seconda del professore, il vantaggio però era avere delle persone diverse. La diversità degli insegnanti è sempre stato il nostro bello, Che italiano fosse insegnato in 10 mila modi diversi era un grande valore. Il fatto di correggere i compiti dei propri allievi magari non è equo ma fa parte di un lavoro che dura tre anni, dove entra in gioco la conoscenza reciproca. Quando prendo una classe inizio a lavorare con 30 ragazzi impostando una mia idea della materia e  di quello che vorrei passare loro. Io li spingo a leggere dei libri, degli autori che a me piacciono e che penso possano arricchirli, poi do un tema su quello ed è chiaro che i temi devo correggerli io, perché sono io a mandare il messaggio e io lo devo ricevere. Se invece vogliamo abolire il messaggio, allora va bene che le prove siano tutte uguali, comuni, oggettive. Però manca l’anima e a me fa molta paura una scuola senz’anima.

La correzione «trasversale» dei compiti rischia di sminuire il rapporto tra insegnante e alunno. Per lei questo rapporto è un fattore importante dell’insegnamento?
Non è importante, è fondamentale, nel bene e nel male il rapporto personale è tutto. Però anche questo è destinato a sparire, forse avremo insegnanti online, forse vogliamo insegnanti che inviino la prova agli studenti davanti ai loro computer e poi si aggirino tra i banchi per vedere che tutto funzioni. Così non c’è più un rapporto culturale e affettivo, però. Non a caso, mi sembra che vogliano sostituire la parola insegnanti con “facilitatori”.

@LeoneGrotti

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