Elezioni, cosa serve perché il voto dei cattolici non sia mesto e rassegnato

Mancano pochi giorni alle elezioni e, con la rara eccezione di alcuni entusiasti, fra i cattolici italiani spira un vento di rassegnazione e di mestizia: sanno bene per chi non dovrebbero votare, ma disperano di poter scegliere in positivo. Nessuna forza politica in campo esprime la storia del movimento cattolico in Italia, nessuna dà piene garanzie rispetto alla dottrina sociale della Chiesa.

Certo, si può andare per esclusione: nessun cattolico può in coscienza votare per forze politiche che odiano talmente la vita da esaltare l’aborto legale come un “diritto” (la 194, la legge italiana che regola l’interruzione delle gravidanze, si guarda bene dal definirlo tale) e che anziché rispettare la coscienza dei medici che non intendono procurarlo conducono battaglie contro gli obiettori; nessun cattolico può in coscienza votare chi vuole spegnere il desiderio nel cuore dei nostri giovani placando l’insoddisfazione esistenziale che alimenta la domanda di senso con lo spinello di Stato; nessun cattolico può in coscienza votare chi progetta di negare ai bambini il diritto di avere un padre e una madre, preferendo trasformare in legge il capriccio di coppie dello stesso sesso che pretendono di mimare la famiglia naturale; nessun cattolico può in coscienza votare le forze politiche che hanno cercato di far approvare al parlamento il ddl Zan, un provvedimento di autentico stampo fascista (altro che i nostalgici nelle file del partito di Giorgia Meloni) pensato per intimidire i diversamente pensanti con l’istituzione di un vero e proprio reato di opinione e per praticare il lavaggio del cervello agli studenti delle scuole di ogni ordine e grado.

È palese che quei cattolici che da una vita ripetono «fateci andare in giro nudi, ma lasciateci la libertà di educazione» non potranno mai e poi mai votare chi vuole entrare nella scuola per imporre ai loro figli di pensare il sesso, la procreazione, la famiglia, ecc. come li pensano l’onorevole Zan e i suoi compagni di partito e di coalizione.

Come ha scritto Comunione e Liberazione nel documento “In cammino verso il bene comune”, «Non è indifferente votare o no, e non è indifferente chi votare».

Il procedimento per esclusione però ha gli stessi vantaggi e gli stessi limiti della teologia negativa: questa ci dice ciò che Dio non è, quello ci dice chi non dobbiamo votare; l’una e l’altro lasciano insoddisfatti il nostro desiderio di conoscenza e di promozione del bene comune. Ma mentre la teologia negativa si basa sul solido e immutabile dato che la natura di Dio resta ineffabile per la creatura in quanto “totalmente altra” (Agostino) rispetto alla coscienza umana, l’incertezza sul voto che persiste anche dopo che si sono scartati partiti e coalizioni invotabili da parte di un credente rivela un dato di fatto amaro che evoca colpevoli responsabilità: non ci sono più partiti di ispirazione cristiana di ampio respiro, i politici cattolici riconoscibili come tali sono dispersi in partiti che li condannano alla subalternità.

Di questo fatto periodicamente discutono intellettuali del mondo cattolico: riconoscono che si tratta di una cosa negativa e normalmente concludono invitando a «ripartire dalla presenza nel sociale». Ma nel sociale i cattolici sono già presenti da sempre; semmai servirebbe un po’ di autocritica anche lì, dal momento che molta presenza nell’ambito del terzo settore ha assunto nel tempo caratteristiche tecnocratiche e mostra una preoccupante subalternità culturale a logiche efficientistiche e all’ideologia umanitarista.

Nessuno vuole ammettere che il declino dell’influenza dei cattolici in politica (in un paese come l’Italia, la cui civiltà è inseparabile dalla sua storia di evangelizzazione) ha avuto un’accelerazione folgorante con la fine della loro unità politica dopo la dissoluzione della Democrazia Cristiana all’inizio degli anni Novanta. All’evidenza del fatto alcuni cattolici  rispondono col discorso di principio: dopo il Concilio Vaticano II la Chiesa non chiede più ai cattolici l’unità politica, l’Octogesima Adveniens (1971) ammette il pluralismo delle scelte politiche; la situazione italiana della seconda metà del ventesimo secolo, allorché i vescovi invitavano sostanzialmente a votare Dc, ha rappresentato un’eccezione, dovuta alla presenza di un forte Partito Comunista. A chi dice queste cose va risposto che la legittimità del pluralismo politico dei cattolici non implica che i tentativi di unità politica degli stessi non siano più un valore. L’ideale dell’unità politica dei cattolici è più grande della legittimità (a certe condizioni) del loro pluralismo. Nasce dalla natura stessa dell’esperienza cristiana, dove avviene quella comunione fra gli esseri umani, quella unità che tutte le ideologie politiche promettono senza poter realizzare, o la realizzano nella modalità perversa dei totalitarismi.

Lo dicono in modo molto chiaro Luigi Giussani, Stefano Alberto e Javier Prades nel libro Generare tracce nella storia del mondo: «L’unità di gente che Lo riconosce in un determinato ambiente, in quanto legata alla comunione di tutti coloro che credono in Cristo presente, incide sulla società, come presente, e sulla storia, come continuità della società. Questa unità rende protagonista l’uomo nuovo battezzato che, per amore di Cristo, tende a creare un mondo più umano per tutti in nome Suo. Per sua natura, tale unità (siano in due o in duecento milioni) incide nella società fino alla politica e nella storia in quanto cultura e civiltà. In questo senso, nel Vangelo c’è la formula chiara e completa del metodo evangelizzatore: “Che siano una cosa sola affinché il mondo s’accorga che Tu mi hai mandato”. Di questo fiume umano visibile e inarrestabile nella storia, il cardinale Newman scriveva: “La Chiesa cristiana, come società visibile, è necessariamente una potenza politica o un partito. Può essere un partito trionfante o perseguitato, ma deve sempre avere le caratteristiche di un partito che ha la priorità nell’esistere rispetto alle istituzioni civili che lo circondano e che è dotato, per il suo latente carattere divino, di enorme forza e influenza fino alla fine dei tempi. (…)”». (pp. 145-46)

Negli anni Settanta questa impostazione fu presa in modo tremendamente serio dai giovani di Comunione e Liberazione. Cl non metteva in discussione il principio dottrinale del pluralismo legittimo. Cl cercava di vivere fino in fondo il suo carisma, che è l’unità in Cristo vissuta esistenzialmente. Che i battezzati siano una cosa sola in Cristo è un mistero della fede, è un fatto soprannaturale. Ma se lo avvertiamo come il fatto decisivo della nostra vita, desideriamo di viverlo esistenzialmente. Chi fa l’esperienza dell’unità con gli altri cristiani in Cristo e dei nuovi rapporti umani che gradualmente da ciò nascono, desidera vivere quell’esperienza di unità in ogni ambito della vita. Se non lo desidera, vuol dire che non ha fatto l’esperienza dell’unità in Cristo come unità con altre persone. L’unità fra i cristiani è il principale segno della presenza e dell’azione di Cristo per chi cristiano non è: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”. (Gv 17, 21). Quindi ha una fondamentale valenza missionaria. Se viene meno, e la testimonianza è ridotta a testimonianza del singolo, l’esito è un impoverimento della presenza e della proposta cristiana.

Naturalmente l’unità dei cristiani in politica non produce come tale una politica cristiana o delle soluzioni cristiane ai problemi politici. L’accusa di integralismo che per tanti anni è stata rivolta a Cl nasce da una incomprensione o da un atteggiamento prevenuto. Cl non ha mai pensato e non ha mai detto che i cristiani hanno risposte e soluzioni politiche in quanto cristiani. Cl ha richiamato al fatto che l’unità dei cristiani vissuta anche nella politica mette in moto l’umano (che i cristiani hanno in comune con tutti gli esseri umani) in un modo tale che nascono iniziative, proposte, opere, battaglie che offrono risposte e che offrono senso alle questioni politiche. Il buon governo della Regione Lombardia nelle legislature in cui è stato presidente Roberto Formigoni (documentato nel libro Roberto Formigoni – Una storia popolare alle pagine 205-390), che non è oscurato da incidenti di percorso e dal successo di malevole congiure, è la dimostrazione storica e concreta di quanto appena detto.

Se si vuole che la presenza cristiana in politica sia viva e incidente, bisogna tornare lì, bisogna tornare a quel tentativo di vivere anche nella politica l’unità che Dio dona in Cristo a coloro che incontrano Suo figlio. Nel frattempo voteremo il meno peggio ed eviteremo di votare gli psuedocattolici che dicono che per i figli conta l’amore e non il sesso dei genitori, dimostrando di essere carenti tanto nella fede che nell’esercizio della ragione. Ma dovremo essere consapevoli che a ben altro bisogna aspirare, che ben altra testimonianza i tempi richiedono. Come scriveva san John Henry Newman: «I membri della Chiesa non fanno altro che il proprio dovere quando si associano tra di loro, e quando tale coesione interna viene usata per combattere all’esterno lo spirito del male, nelle corti dei re o tra le varie moltitudini. E se essi non possono ottenere di più, possono, almeno, soffrire per la Verità e tenerne desto il ricordo, infliggendo agli uomini il compito di perseguitarli».

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