Cristiani e Family Day: il bisogno di una testimonianza all’altezza dei tempi

Il successo di popolo del Family Day di Roma, che ha un significato antropologico, sociale e politico che va al di là della battaglia contro il disegno di legge Cirinnà, non deve far dimenticare che alla manifestazione non ha voluto aderire una parte importante delle realtà associative cattoliche, e non tutti i vescovi si sono pronunciati apertamente intorno all’opportunità di partecipare. Si può interpretare ciò come un riflesso di quella riduzione della fede a una dimensione privata e intimistica a cui accennavo nel post precedente. Senza entrare nello specifico delle motivazioni o dei pretesti addotti per giustificare l’occultamento dell’impegno politico conseguente dalla fede cristiana (nel senso di forma esigente della carità come lo intendeva Paolo VI), questi atteggiamenti sono sintomatici della situazione della religiosità oggi, soprattutto nel mondo occidentale.

Una diagnosi molto interessante a questo proposito si trova in un libro di Rémi Brague ed Elisa Grimi di recente pubblicazione, nel quale sono raccolti anche vecchi interventi dell’accademico francese: Contro il cristianismo e l’umanismo – Il perdono dell’Occidente . Qui leggiamo che in Occidente da tempo le religioni hanno perso il sostegno dello Stato, che normalmente privilegiava una determinata Chiesa, e questo ha favorito l’apparizione del pluralismo religioso e della frammentazione religiosa in molti paesi. Come pure della concorrenza fra le religioni sul libero mercato delle fedi. «La presenza di queste religioni multiple assume l’aspetto di un mercato. Su questo mercato sono offerti diversi prodotti. Per soddisfare i suoi bisogni religiosi, l’individuo sarà libero di scegliere. E non sceglierà soltanto fra religioni diverse, ma anche all’interno di ciascuna religione, per comporre à la carte un bouquet di elementi a suo piacimento» (p. 271).

Il venir meno del monopolio determinato dal favoritismo dello Stato nei confronti di una religione e dall’allentamento della pressione sociale e familiare ha dato vita a un vero mercato. E in un mercato non monopolistico è la domanda che determina l’offerta. L’offerta dei gruppi religiosi tende ad adattarsi al consumatore, e non viceversa. A questo punto si potrebbe obiettare che la religione è una merce speciale, per la quale la legge della domanda e dell’offerta non vale. Ma questa obiezione sarebbe valida se vivessimo nell’epoca pre-moderna, quando la società era comunitaria e organica, i ruoli sociali ascrittivi, il legame fra le generazioni vitale e sentito. Invece siamo nella post-modernità individualistica dei legami liquidi. L’individuo soffre di solitudine, anonimato, aridità affettiva, fragilità psicologica conseguente alla distruzione della figura paterna. Su questa situazione Brague e la Grimi pronunciano una micidiale verità: «Molti fra i nostri contemporanei non chiedono alla religione di convertirli e di santificarli, ma semplicemente di soddisfarli» (p. 274). Un tempo il credente osava dire «la mia è la vera religione», «io vivo secondo la vera religione»; oggi si gloria soprattutto di poter dire «io sto bene». Lo star bene, e non la conoscenza e la testimonianza pubblica della verità insieme al cambiamento del proprio stile di vita a motivo della verità, sono lo scopo principale dell’esperienza religiosa.

Nell’epoca pre-moderna l’uomo, ogni uomo, era cosciente di essere parte di un tutto, dava per certo che ci fosse un ordine che lo superava e nella religione cercava la risposta alla domanda su cosa egli dovesse fare per rispettare e servire l’ordine obiettivo generato da Dio, per fare la volontà di Dio. Nell’epoca post-moderna l’uomo non ha punti di riferimento: tutto è soggettivo, relativo; la verità, se c’è, è inconoscibile da parte dell’uomo. Il fatto stesso che le opzioni religiose e spirituali siano così tante suggerisce che la pretesa di verità piena dell’una o dell’altra sia inattendibile. L’uomo post-moderno, ferito dalla vita (naufragi sentimentali, umiliazioni nelle relazioni sociali, fallimenti o disillusioni professionali, contrazione delle aspettative della giovinezza) non chiede la verità, ma appagamento, tranquillità e rimozione dei sensi di colpa.

Anche il modo di guardare le cose di molti gruppi religiosi è cambiato. Si preoccupano di apparire gradevoli ai potenziali proseliti più di quanto si preoccupino di fare la volontà di Dio come tale. Si preoccupano di essere socialmente accettabili, non divisivi e di non attirare le critiche dei media, anzi di godere di buona stampa. Non si affidano più alla forza intrinseca del messaggio di cui sono portatori e alla Grazia di cui pure dicono di essere veicolo, ma tendono a pensare in termini di strategie di comunicazione, alleanze, ricerca della benevolenza dei poteri mondani. Rinunciano a contrapporsi al mondo e a denunciare il suo male, e cercano piuttosto di farsi accettare e di non suscitare ostilità. Il motivo di ciò è duplice. In primo luogo, gli stessi movimenti religiosi sono percorsi dalle fragilità post-moderne, i loro leader e la loro base patiscono le conseguenze della morte del padre e della crisi della relazionalità umana (le comunità diventano semplici somme di individui). L’ostilità del mondo e il rigetto da parte della società diventano insopportabili per chi ha perso la caratteristica forza d’animo che viene dal radicamento in una paternità e dall’esperienza di fraternità vissuta, quella in cui si è pronti a sacrificarsi per i propri fratelli anziché sacrificarli per opportunismo.

In secondo luogo, nella rinuncia alla denuncia pubblica del male del mondo i gruppi religiosi vedono una strategia efficace per conquistare fette del mercato della domanda religiosa nel XXI secolo, rispondendo alla domanda di tranquillità e benessere che la connota: chi cerca consolazione e gratificazione psicologica non ha certo intenzione di farsi detestare dai colleghi di lavoro o dai vicini per la verità scomoda che annuncia, o di subire rappresaglie da parte del potere (che sia quello del capo ufficio o quello del governo). Tutto ciò provoca stress. Ovvio che per chi si muove in questa prospettiva il Family Day era fumo negli occhi, sale sulle ferite, fastidiosa provocazione.

Premesso tutto ciò, occorre dire chiaramente che la riconversione dei gruppi religiosi di matrice cristiana non funzionerà. Questi gruppi non attireranno nuove adesioni e perderanno quelle vecchie per il fondamentale motivo che il cristianesimo non è una fede della gratificazione psicologica e della tranquillità. È una fede nella quale si sale il Calvario sotto gli sputi e le contumelie del pubblico, lo stesso pubblico che con votazione a maggioranza ha deciso di mandare libero Barabba e alla croce Cristo. È la fede che da venti secoli ripete: «Non sono venuto a portare pace sulla terra, ma la spada» (Mt 10, 34), che promette il centuplo quaggiù ma insieme a persecuzioni (Mc 10, 28-30), che annuncia un fosco futuro in cui «vi trascineranno davanti ai loro sinedri, e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe, (…) e sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Mt 10, 17 e 22). Non ci si può non stupire del fatto che una fede religiosa che proclamava apertamente queste cose abbia incontrato l’adesione dei popoli di un intero continente nell’arco di tredici secoli (la Lituania è diventata cristiana all’inizio del XIV secolo).

A spiegare il fatto che milioni di persone abbiano chiesto per sé e per i propri figli il battesimo non basta certo quel po’ di amore fraterno che i cristiani, con tutti i loro difetti umani, hanno praticato, o l’attrazione esercitata dalle ciotole di cibo dei monasteri nei secoli della fame, o il prestigio di re e imperatori che uno dopo l’altro si convertivano, un po’ per interesse politico un po’ per convinzione. Il cristianesimo è diventato la fibra umana e il fattore principale della civiltà europea (in perfetta simbiosi con la razionalità greca e il diritto romano) perché ha risposto alla domanda di senso circa la sofferenza umana. Non ha promesso di eliminarla o attenuarla, ma di santificarla. Dio che condivide volontariamente e senza necessità le realtà umane della sofferenza e della morte, e ne fa il sacrificio che pone fine a tutti i sacrifici umani (rileggere René Girard) e che redime e salva è la risposta di cui l’umanità antica andava alla ricerca.

L’illusione dell’uomo moderno ma anche di quello post-moderno è che la sofferenza della condizione umana possa essere evacuata. Quando le tecnologie al servizio della qualità della vita e le innovazioni giuridiche che dovrebbero permettere di eliminare drammi e dolori (aborto legale, eutanasia, parificazione delle convivenze omosessuali a quelle uomo-donna, legalizzazione delle droghe) non bastano, ci si rivolge al mondo spirituale. Ma quando al centro della ricerca spirituale viene posto il benessere, sul cristianesimo hanno inevitabilmente la precedenza le religiosità orientali e il sincretismo New Age. Come dimostra la parabola delle Chiese protestanti del Nord Europa, quando il cristianesimo diventa accomodante e aderisce allo spirito del tempo, finisce per estinguersi. Perché va contro la sua stessa natura.

Se vuole restare fedele alla sua origine, la testimonianza cristiana nell’Occidente post-moderno non può non assumere caratteri pre-apocalittici. È sempre più chiamata ad essere testimonianza degli ultimi tempi, resa per lealtà nei confronti della Verità e non per preoccupazioni di pace sociale e di posizionamento del cristianesimo all’interno del nuovo sistema di potere. Come dice Fabrice Hadjadj, «Non ci troviamo necessariamente alla fine dei tempi, ma siamo entrati in tempi che assomigliano alla fine dei tempi». E i cristiani dovrebbero rendere una testimonianza all’altezza dei tempi. L’esito apocalittico non è più un’oscura profezia soggetta a manipolazioni e sensazionalismi, ma una possibilità storica che va prendendo forma. La crescente egemonia della tecnologia implica che il controllo totale sulla realtà si ribalti nel suo opposto: la completa e autodistruttiva mancanza di controllo. Si avvicina il giorno in cui un terrorista potrà, premendo un bottone, far esplodere il mondo intero.

Il fatto che l’umanità si trovi su un piano inclinato apocalittico non significa per ciò stesso che la testimonianza cristiana non possa, senza prefiggerselo programmaticamente, produrre esiti di civiltà. Come risponde Brague nell’intervista che gli fa Elisa Grimi: «La civiltà dell’Europa cristiana è stata costruita da gente il cui scopo non era affatto quello di costruire una “civiltà cristiana”. La dobbiamo a persone che credevano in Cristo, non a persone che credevano nel cristianesimo. Pensate a papa Gregorio Magno. Ciò che lui ha creato – ad esempio il canto gregoriano – ha sfidato i secoli. Ora, lui immaginava che la fine del mondo fosse imminente. E dunque, non ci sarebbe stata alcuna “civilizzazione cristiana” per mancanza di tempo. Lui voleva soltanto mettere un po’ d’ordine nel mondo, prima di lasciarlo. Come si rassetta la casa prima di partire per le vacanze. Cristo non è venuto per costruire una civiltà, ma per salvare gli uomini di tutte le civiltà».

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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