Come si può affrontare la questione dell’insegnamento se non si affronta quella dell’educazione?

Le novità previste

Tante le novità previste dal Governo con la «Buona scuola». Non vi saranno più precari storici, tutti assunti per l’anno scolastico 2015-2016. Saranno attuate misure atte a superare il meccanismo delle supplenze brevi e saltuarie, si individueranno nuove procedure di abilitazione e di reclutamento del personale docente ed educativo, si amplierà l’autonomia scolastica, si aumenteranno le risorse finanziarie delle scuole, si rafforzeranno le competenze degli alunni, si ripenserà lo status giuridico del docente. Una delle maggiori novità sarà proprio quella legata alla figura dell’insegnante che finalmente potrà avere una progressione di carriera. Da decenni non esiste un criterio di valutazione degli stessi a partire dal merito, ma solo dagli scatti di anzianità. Ora verranno introdotti gli «scatti di competenza» per valorizzare le competenze didattiche e professionali. Si assisterà alla semplificazione delle procedure di alternanza scuola-lavoro e delle procedure amministrative e gestionali attraverso l’uso di tecnologie informatiche. Queste sono le intenzioni scritte nero su bianco dal Governo. Per capire come e se verranno attuate dovremo, però, aspettare non pochi mesi.

Alcune domande sulla «Buona scuola»

Non certo pochi sono, però, i nodi da sciogliere. Tra i tanti mi limito a sottolinearne qualcuno. Se davvero saranno assunti tutti i precari storici, secondo quali criteri verranno poi assunti i nuovi abilitati? Un modello potrebbe essere quello inglese in cui con la sua autonomia ciascuna scuola ha la facoltà di assumere gli insegnanti che sono poi sottoposti ad una valutazione. Come si può, poi, valutare davvero ed efficacemente il merito dell’insegnante? Bastano i titoli derivanti da pubblicazioni, da corsi di formazione, etc. per valutare seriamente e oggettivamente il lavoro didattico ed educativo?

Inoltre, non è sufficiente introdurre la carriera scolastica per i meritevoli. Si devono pretendere dagli insegnanti dei requisiti minimi per l’insegnamento, da valutarsi in itinere ovvero durante l’anno scolastico: ad esempio, che conoscano effettivamente le discipline insegnate (non basta aver superato una prova, un concorso, …), che spieghino agli alunni quanto poi pretende da loro nelle interrogazioni, etc. Troppo spesso gli insegnanti si nascondono dietro il pretesto della bassa retribuzione, del non riconoscimento della figura professionale per avvallare un atteggiamento non deontologico.

Come in ogni azienda si chieda che si lavori bene. Non si dia per scontato che chiunque sia entrato nel mondo della scuola vi debba rimanere. Oggigiorno solo nel mondo della scuola è impossibile licenziare. Qualcuno mi risponda: perché? Se il Capo del Governo Renzi afferma che la scuola è fondamentale e che l’Italia tra vent’anni sarà quella dei ragazzi istruiti ed educati nel 2014, ciò significa che il corpo docenti dovrà essere all’altezza dell’importante compito. Si abbia il coraggio, finalmente, di trattare la scuola come una buona azienda in cui tutto deve funzionare al meglio. Le prime risorse non sono le disponibilità economiche, ma le risorse umane e il desiderio di ciascuno di lavorare e di «produrre».

Le novità relative alla scuola dovrebbero, poi, riguardare anche le discipline affrontate nel percorso scolastico: un numero maggiore di ore dovrebbe essere dedicato alla Storia dell’Arte, al Disegno, alla Musica dal momento che la creatività e l’arte appartengono al patrimonio genetico degli italiani. Anche lo studio delle Lingue straniere e la produzione digitale dovranno essere migliorate. Mi chiedo come si realizzerà questo connubio tra un ampliamento dello studio dell’arte e della cultura classica nel senso ampio del termine e una sempre più convincente acquisizione delle nuove tecnologie e delle Lingue senza aumentare il numero di ore scolastiche. Teniamo conto che, inoltre, è previsto che la scuola avvicini gli studenti sempre più al mondo del lavoro. Negli ultimi anni il trend ha visto una diminuzione delle ore di studio della Storia, del Latino, etc., ovvero di quelle discipline che permettono lo studio del nostro invidiabile patrimonio artistico – letterario.

Dovremo, infine, capire come Renzi intenda davvero affrontare la questione della libertà di scelta nell’educazione. Come si permetterà a tutti i genitori di scegliere con libertà la scuola che ritengono più idonea per l’educazione dei propri figli? In alcuni stati dell’Unione Europea questo già accade da tempo.

Ma qual è la vera sfida per noi insegnanti?

Una volta ancora, si affrontano punti centrali della scuola in prossimità dell’inizio della scuola. L’attenzione, così, è spostata dall’ambito educativo a quello istituzionale, decisionale, amministrativo. Qual è, però, la vera sfida per noi insegnanti che tra qualche giorno torneremo in aula con i ragazzi? Nelle aule degli insegnanti, nei collegi dei docenti e nelle commissioni dovrebbero essere messi a tema questioni ben più importanti per l’inizio dell’anno: come si può iniziare l’anno con uno sguardo rinnovato e pieno di speranza, come augurare ai ragazzi un buon anno scolastico il primo giorno di scuola, come comunicare loro che studiare è bello e interessante? So che sorprenderò con queste affermazioni che magari saranno per molti impopolari. Vorrei, però, che le decisioni prese dall’alto non diventassero l’ennesimo alibi per iniziare l’avventura scolastica con scetticismo.

Forse, fa comodo pensare in questo modo e attendersi dall’alto e dalle istituzioni quel risveglio che in primo luogo spetta a noi. Si tratta del risveglio dell’io e dell’umano che nel tempo rimangono immutati.

L’altro giorno ho incontrato una mia ex insegnante del Liceo, che ammiravo all’epoca per l’entusiasmo e il desiderio di insegnare e di stare con i ragazzi. Sono passati tanti anni ormai da quando ero studente di Liceo. Gli anni sono trascorsi anche per la professoressa che mi ha espresso tanta disillusione e tristezza per come vada la scuola. Quando le ho ricordato i tempi in cui era mia insegnante, mi ha risposto che allora era ancora giovane a livello anagrafico ed era piena di speranza. Devo confessare che queste parole mi hanno riempito di tristezza. Siamo tutti destinati nel tempo a perdere la speranza e l’entusiasmo che caratterizzavano i primi anni di insegnamento? È solo questione di tempo e di età? L’esperienza di alcuni insegnanti più anziani di me mi infonde coraggio e mi permette di dire con certezza che si può affrontare con grinta e audacia l’avventura scolastica anche dopo parecchi anni di insegnamento. La giovinezza può, infatti, permanere nel cuore, anche quando l’età avanza, perché è una dimensione dello spirito, un atteggiamento del cuore. Ci sono cuori che vivono pieni di domanda e di attesa e altri che, già a vent’anni, non si aspettano più nulla. Ada Negri è testimone che la facoltà di sorprendersi è l’atteggiamento proprio della giovinezza che può permanere nel cuore, anche in età matura. Ada Negri scrive, rivolgendosi alla gioventù: «Non t’ho perduta. Sei rimasta, in fondo/ all’essere. Sei tu, ma un’altra sei:/ senza fronda né fior, senza il lucente/ riso che avevi al tempo che non torna,/ senza quel canto. Un’altra sei, più bella» («Mia giovinezza»). Questa giovinezza, non più accompagnata dall’appariscenza esteriore, è divenuta più consapevole e si è fortificata nel dolore, più capace di riconoscenza e di gratitudine, piena di speranza, fiduciosa e tesa a ciò che non inganna e non passa («Ami, e non pensi esser amata: ad ogni/ fiore che sboccia o frutto che rosseggia/ o pargolo che nasce, al Dio dei campi/ e delle stirpi rendi grazie in cuore./ Anno per anno, entro di te, mutasti/ volto e sostanza. Ogni dolor più salda/ ti rese: ad ogni traccia del passaggio/ dei giorni, una tua linfa occulta e verde/ opponesti a riparo»). Pensiamo che contributo potrebbe portare con la sua esperienza un insegnante non più giovane, ma che fosse consapevole di quanto scrive la poetessa.

Come si può affrontare la questione dell’insegnamento se non si affronta quella dell’educazione?

Anche i fondamenti del rapporto educativo tra maestro e discepolo rimangono gli stessi. Ecco come duemila anni fa nell’Institutio oratoria Quintiliano descriveva i doveri del maestro nei confronti degli alunni: «Nei confronti dei suoi discepoli, il docente, anzitutto, assuma i sentimenti di un padre, e sia convinto di prendere il posto di quanti gli affidano i figli. Egli non abbia vizi e non li ammetta negli altri. La sua serietà non diventi cupa e la sua affabilità non sia sguaiata, affinché, a causa della prima, non gli venga antipatia e, a causa della seconda, scarso rispetto. Parli spesso di ciò che è onesto e di ciò che è bene: infatti, quanto più spesso ammonirà, tanto più raramente punirà. Si adiri il meno possibile, ma non finga di non vedere i difetti da correggere, sia semplice nelle spiegazioni, resistente alla fatica, assiduo ma non eccessivo. Risponda volentieri a chi gli fa domande, di sua iniziativa interroghi chi non gliene pone. Nel lodare le esercitazioni degli allievi non sia né troppo stretto né troppo largo, poiché il primo atteggiamento rende noioso lo studio, il secondo genera eccessiva sicurezza. Quando corregge gli errori non si mostri aspro e offenda il meno possibile, perché il fatto che alcuni biasimino i ragazzi quasi come se provassero astio verso di loro ne allontana molti dal proposito di studiare».

Credo che nel mondo della scuola tutti gli insegnanti dovrebbero riflettere e meditare su queste considerazioni che Quintiliano solleva a partire dalla sua quotidiana esperienza dell’insegnamento. Quante volte, oggi come un tempo, una materia non viene comunicata agli alunni perché manca una posizione corretta da parte dell’adulto di porsi di fronte al ragazzo. Ogni docente si porrà di fronte alla classe con la sua personalità, le sue qualità, tutto il suo essere. Andrà salvaguardata la libertà dell’insegnamento che non significa totale arbitrarietà dell’insegnante. Vanno coniugate professionalità e umanità. Entrambi i fattori si devono compendiare, l’uno non ha efficacia piena senza l’altro. L’insegnante dovrà essere in grado di mantenere la disciplina, che non è il fine dell’educazione, ma requisito fondamentale e imprescindibile, punto di partenza perché possa instaurarsi un rapporto educativo. La mancanza di disciplina è uno dei problemi fondamentali nelle scuole di oggi. La disciplina non è una formalità, ma è una forma sostanziale, è il riconoscimento che vi è di fronte ai ragazzi una presenza autorevole che può comunicare qualcosa di importante. Il silenzio è, quindi, il riconoscimento che si è in una posizione di ricezione e di ascolto, non passivo.

Un rapporto educativo è sempre anche biunivoco e necessita della partecipazione della componente adulta e giovanile. Quintiliano non tralascia, quindi, i doveri degli alunni: «Dopo aver parlato tanto dei doveri dei maestri, voglio dire ai discepoli soltanto questo, di amare i maestri  non meno dei loro studi e di ritenerli genitori non dei corpi ma delle menti. Questo rispetto gioverà molto allo studio, perché, così, li ascolteranno volentieri e crederanno alle loro parole e desidereranno essere simili a loro».

Le parole di Quintiliano potrebbero sembrare scontate e ovvie, ma sono, in realtà, il fondamento dell’educazione. Nella pratica quotidiana ci si rende conto che la componente dell’affettività, di cui parla il grande retore latino, non viene mai messo a tema nella scuola. Sempre più l’insegnante è definito come un facilitatore di conoscenze, a breve come un certificatore di competenze. Ma come si può affrontare la questione dell’insegnamento se non si affronta quella dell’educazione? E come si può discutere di educazione se non si discute di cosa sia l’uomo? In realtà da questo confronto su cosa sia l’uomo si rifugge, certa come è la maggior parte delle persone che non vi siano una visione unica e una verità e che, quindi, ognuno debba tenersi la sua opinione. In questo clima di relativismo si pretendono, però, la collegialità e le scelte condivise. È un paradosso, perché vera democrazia e relativismo non possono convivere. Non può esistere, infatti, una condivisione di intenti senza la convinzione che vada cercata la verità.

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