Breve saggio di resistenza alla diseducazione anti italiana

Occorre contrattaccare su tutti i fronti in nome di una rivolta umanistica che rimetta al centro l’uomo e la sua eterna possibilità di trascendersi nell’incontro col divino

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Per i maestri cantori dello ius soli sarebbe sufficiente un ciclo scolastico a garantire un certificato di sana e robusta cittadinanza italiana. Lo chiamano, vezzosamente in latino, ius culturae. Peccato che siano proprio loro, governanti e governati solidali con quelli, i colpevoli dello smantellamento di ciò che rimane dell’insegnamento pubblico; e senza nemmeno una degna alternativa nella scuola paritaria o nell’home schooling, segnacoli ormai disertati perfino dal cattolicesimo movimentista. Per non dire del trattamento mortificante riservato al cuore dell’istruzione nazionale, quel liceo classico oggi disincentivato in funzione di un illusorio spirito di uniformità ai protocolli scuola/lavoro internazionali.

L’autunno si avvicina, scuole e università patiscono la solita, drastica diminuzione di un corpo docenti doviziosamente proletarizzato e ideologicamente irrancidito dai nipotini della pedagogia sessantottina che muovono le leve ministeriali da oltre un ventennio. Nel frattempo, tra scioperi annunciati e contromosse clientelari, il ministro Fedeli vaneggia intorno a cicli scolastici secondari da accorciare a quattro anni, come se non fosse bastata l’introduzione asinina della laurea breve, e contemporaneamente invoca l’allungamento dell’obbligo scolastico a diciotto anni. Col che, oltre a lanciare segnali comici, ci si avvia a inaugurare la figura dello “studente esodato”: giunto al diploma di maturità, non intenzionato a iscriversi all’università ma costretto per decreto a un altro anno di studi (si farà bocciare per risolvere l’aporia?).

Non è poco e non è tutto. Al fondo della questione c’è l’assenza di un disegno strategico educativo. La misera intellighenzia goscista che ha abbandonato la lotta di classe, in nome della lotta di genere, indossa i panni della polizia del pensiero e infligge al decisore politico uno spaventoso palinsesto diretto all’indistinto valoriale; alla negazione dei ruoli e dei sessi naturali nella composizione famigliare e nella formazione dei giovani; alla colpevolizzazione preventiva degli istinti primari dei giovani che, grazie alla presenza di figure magistrali autoritative e vocate all’ordine, dovrebbero procedere dall’informe alla compiutezza. Dovrebbero. Perché così non sarà più, se prevarranno le distorsioni e l’impoverimento di risorse contemplate da una meccanica di grande sostituzione culturale italiana ed europea che s’annuncia da qui a pochi anni.

Rimpiangere il modello di Giovanni Gentile ci consegna a un eroismo di retroguardia. Occorre contrattaccare su tutti i fronti in nome di una rivolta umanistica che appunto rimetta al centro l’uomo e la sua eterna possibilità di trascendersi nell’incontro col divino in se stesso e al di sopra di sé, ciascuno secondo le proprie inclinazioni (io per esempio abolirei la scuola dell’obbligo) e in un rapporto di fedeltà con la propria natura. Qualche segnale positivo c’è. Due settimane fa, ad Alvito, patria del grande umanista Mario Equicola, ho moderato un dibattito con due campioni della cultura impegnati nella difesa della tradizione classica: il filologo reazionario Miska Ruggeri (Giù le mani dal liceo classico, Book Time) e il docente progressista di Letteratura greca Michele Napolitano (Il liceo classico: qualche idea per il futuro, Salerno editore). Un anonimo, eccezionale successo di pubblico, giovanile e no: per metà merito di Vittorio Macioce che è l’organizzatore dell’evento (Festival delle storie VIII), per l’altra metà merito della Tradizione, una forza archetipale intatta che palpita nella caverna purpurea del nostro cuore. Ascoltiamola.

@a_g_giuli

Foto Ansa

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