«Asia Bibi, condannata due volte dal nostro silenzio»

Il 19 giugno sarà il nono anniversario dell'arresto della donna cattolica condannata all'impiccagione in Pakistan e solo il laico Pierluigi Battista (Corriere) se ne ricorda

«Mi chiamo Asia Noreen Bibi. Scrivo agli uomini e alle donne di buo­na volontà dalla mia cella senza finestre, nel modulo di isolamen­to della prigione di Sheikhupura, in Pakistan, e non so se leggerete mai questa lettera. Sono rinchiusa qui dal giugno del 2009». Sono passati quasi sei anni dal dicembre del 2012, quando i giornali diffusero l’appello di Asia Bibi, con­dannata a morte mediante impiccagione per false accuse di blasfemia contro il profe­ta Maometto. Tra poco sarà il nono anniversario di prigionia, che dopo un trasferimento sta scontando nel carcere femminile di Multan.

L’EDITORIALE LAICO. «Sono sposata con un uomo buono che si chiama Ashiq Masih. Abbia­mo cinque figli, benedizione del cielo: un maschio, Imran, e quattro ragazze, Nasima, Isha, Sidra e la piccola Isha. Voglio soltanto tornare da loro», ma i giornali si sono dimenticati di lei, di quella donna che «per qualche tempo ha ricevuto la solidarietà di molte organizzazioni umanitarie, e ovviamente del Vaticano. Dopo un po’ la campagna in suo favore è però venuta a noia. La difesa di una donna cristiana non si porta molto, sa di vecchio, non attira, non è cool. E perciò Asia Bibi se ne sta in galera da quasi 3.300 giorni condannata nel silenzio e nell’indifferenza». Così Pierluigi Battista nel suo editoriale sul Corriere di ieri “Asia Bibi in cella da 3.300 giorni”.

«L’ABBIAMO DIMENTICATA». Ci voleva un laico per accendere ancora una volta la luce su quella cella e mostrare spietatamente «quello che non vogliamo vedere. E cioè una donna dimenticata dalla corrente mainstream e con lei una parte di noi. Perché Asia Bibi è una di noi, è questo il problema», spiega Battista a tempi.it, «è troppo poco “altra” da noi, per farne motivo di indignazione, per lottare per la sua liberazione. Perché Asia Bibi è cristiana e quindi secondo la vulgata manichea per cui il mondo si divide in buoni e cattivi, è troppo poco “buona” per essere difesa da noi che siamo cattivi, che abbiamo la fobia della difesa della nostra identità e quindi del retaggio religioso perché ogni nostra definizione potrebbe diventare un’offesa verso l’altro; ogni difesa della nostra identità venire letta come una forma di sciovinismo culturale, di supremazia, mentre l’identità altrui è sempre ricchezza, da difendere e per cui lottare». Fino a livelli inaccettabili, «dove sono le organizzazioni umanitarie, dove sono i Gino Strada? Perché chi grida pietà per tutti i migranti non si impietosisce davanti a una donna e madre condannata per non aver fatto nulla? Il silenzio, è il motivo per cui ho scritto alla vigilia di questo mostruoso anniversario, questo numero spaventoso di giorni trascorsi in una cella da innocente che svela tutta la nostra ipocrisia e doppiezza morale: i martiri sono sempre gli altri, della sorte dei cristiani perseguitati, di chi ci è più prossimo come Asia Bibi, non interessa a nessuno».

ACCUSE DI BLASFEMIA. Faceva caldo quel 14 giugno del 2009, Asia Bibi, madre di cinque figli, lavorava nei campi come sempre. Era andata a prendere dell’acqua da un pozzo per ristorarsi e poi l’aveva offerta alle donne musulmane che lavoravano con lei. Per tutta risposta, loro l’accusarono di avere infettato la fonte. Perché lei, in quanto cristiana, era, è, un’infedele. Asia Bibi aveva allora respinto quell’appellativo e si era rifiutata di convertirsi all’islam, spiegando quanto fosse grande tutto quello che Dio aveva fatto per lei nella vita. Le donne l’avevano accusata di blasfemia per insulti al profeta Maometto e, in capo a cinque giorni, il 19 giugno, il mullah musulmano Qari Muhammad Sallam aveva formalizzato l’accusa davanti alla polizia.

DUE UOMINI GIUSTI. «Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nel­la mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’islam. Io l’ho rin­graziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta one­stà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musul­mana», racconta Asia Bibi nella sua lettera, ricordando due uomini giusti morti ammazzati che chiesero per lei giustizia e libertà: Salman Taseer, gover­natore del Punjab, assassinato il 4 gennaio 2011 da un membro della sua scorta, e il ministro Shahbaz Bhatti, che venne circondato nella sua auto e fu ucciso con ferocia. «Povera Asia Bibi, condannata a morte e dimenticata anche da noi, colpevole di essere donna e cristiana». Perché il suo essere donna non passi in secondo piano, spiega Battista, bene anzi benissimo ha fatto Acs ad accendere un faro per le donne che hanno subito violenze a causa della loro fede rivolgendosi con una lettera aperta alle donne del mondo dello spettacolo che hanno denunciato lo scandalo delle molestie in Occidente, «ma che non sia occasione questa per dare luogo a ulteriori distinguo che non aiutano nessuno».

QUASI 3.300 GIORNI. Soprattutto Asia Bibi, il cui nome pare sepolto dalle tempeste di sabbia scatenate nei processi di argomentazione così sterili sulla violenza contro le donne – «quando sento “e le femministe? E la Boldrini” mi sembra di sentire “e le foibe?”, la riduzione di un dramma vero ridotto a battuta» –, nella banalità del male così equivocata di Hannah Arendt che scriveva: «Solo il bene è profondo e può essere radicale». Finché resterà sinonimo di discriminazione, intolleranza, razzismo, sessismo, islamofobia, supremazia, intolleranza la difesa della libertà religiosa resterà un concetto ipocrita, finché la luce del bene continuerà ad accendersi ad intermittenza la cella di Asia Bibi continuerà a restare al buio. «Mi chiamo Asia Noreen Bibi. Scrivo agli uomini e alle donne di buona volontà», «sono passati quasi 3.300 giorni, quanti ne dovrà scontare ancora Asia Bibi – chiede Battista – e a chi importa?».

Foto Ansa

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