Al cambiamento climatico serve un nome più allarmante, dice il reparto marketing

La rivista dei guru della pubblicità si inventa un esercizio che farebbe faville al Cop25: trovare al cambiamento climatico il nome più terrificante possibile per «spingere la gente all'azione»

Volano parole grosse al Cop25, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite in corso a Madrid. Le «conseguenze devastanti» del riscaldamento globale. La nostra casa che «brucia». L’umanità «in guerra con il pianeta» e il pianeta che «ci sta rendendo colpo su colpo». I leader mondiali riuniti «al capezzale della Terra». Tutti noi «vicini al punto di non ritorno».

Senza dimenticare lo sbarco di Greta Thunberg a Lisbona in catamarano, attesa all’approdo da «diverse decine di ambientalisti» che «la stavano aspettando da alcune ore» come si attende il messia che ci guiderà nella scelta «tra speranza e capitolazione» di fronte ai cambiamenti climatici. Mentre tutto intorno sono «eventi meteorologici estremi» e «catastrofi» e «uragani» e «siccità» e «inondazioni» e «incendi», oltre che «calotte polari che si sciolgono».

E proprio a proposito di allarmismo climatico condito con parole grosse, sempre più grosse, nei giorni scorsi AdAge, rivista di riferimento per il mondo del marketing e della comunicazione pubblicitaria, ha ospitato un articolo con interessanti suggestioni. «Rinominare il cambiamento climatico: un nuovo nome ci spingerà finalmente ad agire?». Il titolo dice già molto, e dice qualcosa anche il fatto che a firmare il pezzo sia Aaron Hall, il quale si definisce «professional namer», ossia uno che di mestiere trova il nome giusto al prodotto.

Hall fa appunto il suo lavoro scrivendo quel che scrive e utilizzando categorie del marketing e della pubblicità, ma l’articolo merita la lettura anche da parte dei non addetti ai lavori perché riecheggia parecchio la logica delle parole grosse di cui sopra. Che a quanto pare non è un’esclusiva delle agenzie di advertising.

L’idea di Hall è di sottoporre i concetti di “cambiamento climatico” e “riscaldamento globale” a un classico intervento di “rebranding”, l’operazione di marketing che si fa sui marchi per renderli più vendibili. Si domanda Hall:

«Non è che questi termini scienfici sono troppo neutrali? Fanno abbastanza per richiamare l’attenzione e spingere la gente ad agire?».

Nella vita reale, e forse ancor più nella scienza, i nomi dovrebbero essere consequentia rerum, conseguenza delle cose (i follower di Umberto Eco ci passino la semplificazione). Qui però siamo nel campo della pubblicità, dove invece i nomi non servono a indicare e descrivere le cose: devono soprattutto convincere il consumatore a «take action», come dice Hall. A fare qualcosa. Cambiare un comportamento. Comprare l’articolo. Infatti la pubblicità non dice: “Ti propongo un buon caffè”. Dice: “Ecco un caffè di cui non puoi fare a meno”.

Non è per banalizzare un mestiere che ha una dignità infinitamente superiore a tanti altri e richiede precise competenze, ma è abbastanza significativo già il solo fatto che «dopo lo sciopero globale per il clima del settembre scorso» Hall abbia sentito l’esigenza di prestare la sua professionalità di «namer» alla causa allarmista.

Nella testa del pubblicitario – e non solo nella sua, a quanto pare – il termine giusto per designare il “cambiamento climatico” e il “riscaldamento globale” non è quello che descrive meglio quanto abbiamo sotto gli occhi e sotto gli strumenti di osservazione. Anche perché su questo – lo abbiamo scritto tante volte – non c’è grande accordo nella comunità scientifica, e finiremmo per doverci adattare a termini moderati e insipidi, tipo, appunto, “cambiamento climatico”. Termine che purtroppo però, lascia intendere Hall, non spaventa più nessuno.

Notevole il passaggio in cui l’autore descrive l’evoluzione del lessico utilizzato dagli scienziati, o meglio dal partito allarmista degli scienziati, per descrivere il problema.

«Breve lezione di storia: gli scienziati un tempo usavano il termine “inadvertent climate modification” [modifiche accidentali del clima, ndr] per riferirsi ai sottili cambiamenti nei modelli del clima globale causati dagli uomini. Nel corso degli anni Settanta, la comunità scientifica coniò due nuovi termini: riscaldamento globale (l’aumento della temperatura superficiale media della Terra) e cambiamento climatico (un cambiamento di lungo periodo nel clima terrestre).

Dapprima, i politici si sono attaccati al riscaldamento globale perché suona più preoccupante (la Terra si riscalda troppo rapidamente). Ma era troppo facile trovarci contraddizioni, perché la Terra si stava anche raffreddando. In occasione delle perturbazioni dai vortici polari, gli scettici twittano spesso che “sarebbe bello avere un po’ di quel ‘riscaldamento globale’ adesso”. Dunque i politici virarono sul “cambiamento climatico”. Questo concetto è più difficile da negare, ma è anche meno coinvolgente e richiama meno all’azione».

Di qui la domanda dell’esperto di marketing:

«Esiste un modo migliore per trasmettere l’urgenza della situazione, stimolando anche la gente ad agire?».

Dopo di che, Hall procede a raccontare il lavoro di rebranding che si è svolto all’interno della sua agenzia (coinvolgendo un «team globale di namers» da Londra, New York, San Francisco, Shanghai), con tanto di classico briefing pubblicitario: obiettivi della campagna, audience da colpire, messaggio da veicolare.

«Il brand deve raggiungere un pubblico che non è preparato in termini scientifici. Dobbiamo far capire a queste persone la gravità di quel che sta accadendo al loro pianeta e spingerli a fare scelte di vita più eco-friendly e scelte a favore del clima nelle urne».

Quali sono dunque i nuovi nomi del cambiamento climatico suggeriti all’umanità dal reparto marketing?

Il primo è «global meltdown», termine che inglese evoca nello stesso tempo scioglimento (delle calotte polari, per esempio) e disastro. «Nel naming, chiamiamo i nomi metaforici “nomi suggestivi”, ed è un tipo di nomi che va per la maggiore».

Ancora: «collasso climatico» o «caos climatico». Questi due perché «”cambiamento” suona tanto neutrale. Al contrario, non c’è nulla di neutrale in un collasso e nel caos», entrambe «situazioni che tutti vorrebbero evitare».

Poi c’è «punto di fusione» (il vocabolo qui è di nuovo «melting») oppure, anche meglio, «punto di ebollizione», espressione che «suscita immagini di fiumi, laghi e oceani che bollono e scompaiono».

E perché non usare «Terra bruciata»? Certo, questo slogan è un po’ «iperbolico», ammette Hall, ma talvolta occorre esagerare «per conquistare davvero i cuori e le menti».

«Se non agiamo subito, la Terra diventerà inabitabile, un luogo irreversibilmente arido e desolato. Piante e animali moriranno. Gli uomini non riusciranno a sopravvivere a eventi estremi come inondazioni, siccità, incendi».

In effetti a questo punto l’articolo può far sorridere i non addetti ai lavori, ma va tenuto presente che in un brainstorming da agenzia il bravo pubblicitario non deve aver timore di sparare qualche parola grossa (appunto). L’idea giusta per la «call to action» può scappar fuori dalle pensate più assurde.

A rendere il tutto un po’ grottesco, piuttosto, è che il lavoro di Aaron Hall e dei suoi «artigiani dei nomi» avrebbe potuto svolgersi al Cop25 e probabilmente nessuno se ne sarebbe stupito.

Ps. Da notare che alcuni dei nuovi brand proposti per il cambiamento climatico dagli «artigiani dei nomi» ingaggiati da Aaron Hall sono già abitualmente utilizzati, per esempio, dal britannico Guardian, giornale capofila dell’appiattimento globale sull’allarmismo climatico.

Foto Ansa

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