Aiuto, ricomincia la scuola (mai provato a farvi tre mesi da genitore moderno di bambini delle elementari?)

Il diario di papà Mattia Feltri alla vigilia del rientro in classe con i figli dopo le vacanze estive, «i tre mesi più lunghi d'Europa, la traversata dell'Atlantico con la pagaia»

Non ci si accorge di quanto possano essere lunghi tre mesi finché non si diventa genitori di bambini delle elementari. Prima tre mesi erano tre mesi. Adesso sono i tre mesi più lunghi d’Europa, sono la traversata del deserto, l’oceano Atlantico affrontato su una tavola di legno con la pagaia. Tre mesi durante i quali si rimpiangono le brumose serate di febbraio, quando si rincasa dal lavoro e i bambini sono in pigiama, con la testa umida di doccia, le polpette al sugo spazzate via dal piatto e per i cartoni un’autonomia di mezz’ora prima di andare a letto. Tre mesi che necessitano di un’organizzazione sovietica, di un’efficienza tedesca, di una fantasia brasiliana e soprattutto di un’italiana capacità di improvvisazione se si vuole conservare la speranza di superarli.

Tutto comincia a maggio, in realtà, perché il genitore moderno non accetta – pena riprovazione sociale – di tenere i bambini in appartamento fino al giorno della partenza per il mare. Il genitore moderno comincia per tempo a informarsi in rete sui campi estivi. Negli anni si è provato il campo estivo al bioparco (vietato dire zoo, sa troppo di inconsapevolezza dei diritti degli animali), il campo estivo full immersion di inglese con primi rudimenti di teatro scespiriano, il campo estivo archeologico sul Palatino, il campo estivo con scuola di pittura in via Margutta. Per il campo estivo al bioparco servono stivali di gomma, berretto con visiera, bottiglietta d’acqua, mercurocromo, sieri antimalarici e antivipera; per il campo estivo archeologico servono scarpe chiodate, zappetta, caschetto coloniale e un’assicurazione sugli eventuali danni a reperti imperiali; per il campo estivo in via Margutta servono tempere, pennelli, tavolozza, basco ed è gradito uno spiccato accento francese. Il dramma di questi campi estivi è il saggio finale. Già si è usciti stremati dal fittissimo calendario di saggi di fine anno scolastico: il saggio di recita, il saggio di musica, il saggio di ginnastica artistica, la partita di minibasket, l’esposizione dei lavoretti, il mercatino di beneficenza, il saluto alle maestre nella notte di solstizio. Ora tocca il saggio con la danza dell’orso, il saggio su metodologie di scavo e datazione di coccio, il saggio di raffigurazione di natura morta con successiva mostra e obbligo d’acquisto. Non siamo neanche a fine giugno.

Il panico da compiti delle vacanze
Al mare i bambini stanno con la tata, ma un nuovissimo e implacabile senso di responsabilità impone ai genitori moderni di raggiungerli ogni sera. Una volta tocca alla mamma, quell’altra al babbo. Si arriva dopo cena e si riparte all’alba, giusto perché i piccoli non risentano di traumi d’abbandono. Poi i week-end. Poi le meschine contabilità fra coniugi: «Siamo 22 sere a 19 per me! Degenere!». Naturalmente i bambini non possono stare al mare e fare semplicemente i bagnanti, e baciarsi i gomiti. No, devono fare il corso di nuoto, iscriversi all’arena serale di film per l’infanzia e partecipare alle olimpiadi sulla spiaggia. Agosto si avvicina e ad agosto si va in vacanza insieme e devono essere vacanze intelligenti, con visite ai musei, studi della lingua locale, percorsi sugli usi e costumi degli autoctoni, da cui si torna depressi per la superiorità antropologica dei bambini stranieri. Ma non c’è tempo per la depressione: la tata è in Ucraina, bisogna mobilitare vecchie zie, nipoti universitarie affamate di soldi, semplici conoscenti… Ma poi settembre arriva, e quando settembre arriva sono tutti problemi delle maestre.

Abbiamo trascorso la settimana precedente a scegliere gli zaini, gli astucci, le penne, i colori. Tutto griffatissimo, perché i bambini, come gli adulti, fanno a gara con gli amici a chi ha la roba più “fica” o “fichissima”, ma a differenza degli adulti non hanno ancora scoperto il fascino occasionale dell’anticonformismo. Violetta, Spiderman, Cucciolotti, Spongebob, Monster High, Peppa Pig, Cars, tutti orrendi decuplicatori di prezzi ma non importa: il dissesto finanziario in cambio della libertà. Il guaio vero è un altro, è il confronto con i genitori dei compagni di classe dei nostri figli. Durante l’anno c’è la scusa sempre buona, si va di fretta, ci aspetta il capo, sta cadendo il governo, ma il primo giorno di scuola bisogna fermarsi, c’è niente da fare.

Non è che gli altri genitori siano messi meglio. Hanno lo sguardo del naufrago che vede terra, eppure si sono studiati per mesi il curriculum estivo da consegnare all’invidia dell’interlocutore. «Mio figlio ha letto sette libri di Harry Potter», «il mio ha imparato lo spagnolo», «il mio ha salvato un senzatetto che stava buttandosi nel Tamigi», «il mio ha dipinto la Gioconda», «il mio ha maturato un paio di buone idee per la soluzione del conflitto mediorientale». Una mamma illustra l’infallibile sistema con cui ha agevolmente consentito al figlio di concludere i compiti estivi in tempo: numero delle pagine da studiare diviso numero dei giorni a disposizione, moltiplicare per le domeniche libere, sottrarre la radice quadrata della temperatura media e il risultato è il lavoro quotidiano da affidare al bimbo.

Il nostro sistema è un altro: per le prime due, tre o quattro settimane non si fa nulla perché i bambini devono riposare. Poi ci si dimentica. Alla fine è troppo tardi. Il primo anno pensavo fosse obbligatorio consegnare completato il libro degli esercizi; controllai il libro a inizio settembre: pagine fatte dodici, pagine mancanti centotrenta. Imposi a mia figlia Benedetta un tour de force da tredici pagine al giorno, ma alle nove di sera e a sole sei pagine finite dovetti arrendermi all’evidenza: scivolai come un ladro nella notte per buttare il libro nel cassonetto e a mia figlia dissi che l’avevo buttato per errore coi giornali vecchi. Alla ripresa delle lezioni andai dalla maestra per rifilarle la medesima bugia rifilata alla bimba e lei mi guardò con compatimento: «Non si preoccupi, il libro serve per tenersi in allenamento, ma basta che i ragazzi scrivano e leggano un po’…». Ecco, ora me la cavo così, faccio leggere a Benedetta qualche libro di Geronimo Stilton e le faccio scrivere qualche tema.

Tre euro per i gerani sul davanzale
Ma il senso di colpa c’è, e mi disegna una smorfia simile a quella degli altri genitori, che mentre elencano le straordinarie avventure vissute coi figli in Patagonia e al Polo Nord pregustano il bar con la Gazzetta, la palestra, il parrucchiere. Prima ci scambiamo i buoni propositi. «Quest’anno iscrivo mio figlio a judo, nuoto e ceramica», «la mia farà parapendio, giapponese e arte del mosaico», «il mio contrabbasso, corso da sommelier e fisica nucleare». Noi, più realistici, ci accontentiamo di danza per la bimba e calcio per il bimbo. Il programma prevede per lei l’intero percorso da primi passi fino alla Scala di Milano, per lui da primi calci a contratto quadriennale con il Liverpool, ma intorno a metà ottobre ci siamo arresi al traffico, all’influenza, alle lacrime dei bambini che si sono già scocciati.

E poi c’è qualcosa di più urgente da fare: l’inglese! Perché Benedetta viene a casa con i compiti: dieci frasi col verbo avere, dieci moltiplicazioni, altitudine a cui vivono gli stambecchi, strati geologici nella tundra ma mai, mai che venga a casa con compiti di inglese. La riforma del governo Berlusconi ha portato, nella scuola di mia figlia, due ore di inglese settimanali. Forse questo dice tutto del nostro paese, ma fa nulla, ci penseremo mia moglie e io intanto che siamo impegnati a sfuggire alle manie organizzatrici degli altri genitori: il primo giorno di scuola è anche quello in cui si controllano numeri di telefono e indirizzi mail. La terrificante mailing list di classe ci aggiornerà con cadenza bisettimanale di iniziative (gita genitori-figli la domenica mattina sull’Appia antica, iniziativa genitori-figli il sabato pomeriggio a ripulire i parchi pubblici, volontariato genitori-figli nel doposcuola a ridipingere la II B) e spese (tre euro per i gerani da mettere sui davanzali dell’aula, sette euro per lezioni e attrezzatura di primo soccorso, venticinque euro per l’acquisto del sassofono di classe). Vedo già Natale, la festa di Natale, la recita di Natale, la pizza di Natale, i compiti di Natale, e li farò, con Benedetta, mentre sognerò giugno e le vacanze estive…

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Benedetta e io usciamo di casa verso le otto e un quarto. Benedetta ride perché dice che ogni mattina scruto il cielo dalla finestra ma poi si mette sempre a piovere appena mettiamo il becco fuori dal portone. Camminiamo mano nella mano: ha otto anni, è ancora lei a cercare la mia. Mentre andiamo verso il forno, ripetiamo la lezione (durante l’inverno siamo quasi responsabili persino noi). Entriamo al forno, con quel meraviglioso odore che hanno i forni alla mattina: pizze, focacce, torte, muffin. Lei sceglie qualcosa e io penso che un giorno, quando sarà grande, entrerà in un forno e sentirà odore di pizza, di focaccia, di torta, di muffin e penserà a suo padre, e a quanto grande gli sembrava la sua mano.

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Giulio ha cinque anni e mezzo. Da questo settembre tocca anche a lui: prima elementare. Sa già leggere e scrivere in stampatello maiuscolo, sa fare somme e sottrazioni purché si stia entro il dieci (per lui otto più tre, dopo gran lavorìo di dita, fa uno). È spiaciuto di lasciare la maestra della materna e preoccupato dalla scuola perché vede che alla sorella maggiore tocca di fare i compiti. Come sempre, quando è disarmato, dimentica le sbruffonerie e le villanie di maschio. Si è accostato a Benedetta e le ha detto: «Spero che ci vedremo in giardino, così ci possiamo abbracciare».

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