Ah, i giornalisti! Ma Cl non si chiude in sacrestia

Ah, i giornalisti. Come si fa a fidarsi di loro? Se dici “nero”, loro scriveranno che hai detto “bianco”, o per lo meno “grigio”. Ti interpreteranno come fa loro comodo, anche se la lingua italiana non è affatto equivoca nelle sue espressioni. Così capita che don Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, tornando dal Sinodo dei vescovi scriva una lettera agli iscritti della Fraternità dove a un certo punto si legge: «In questi tempi, davanti a quello che accade al nostro movimento, mi viene spesso alla mente l’esperienza del popolo di Israele. Mi auguro che non ci debba capitare quello che è successo ad esso: rifiutandosi di ascoltare i richiami dei profeti, il popolo fu portato in esilio». Commento del Corriere della Sera: CL rinuncia all’impegno politico. Commento de Il Foglio: CL fa la scelta religiosa. Basandosi semplicemente sul fatto che è stato evocato l’esilio del popolo di Israele!

Eppure il testo è chiaro: «Mi auguro che non ci debba capitare quello che è successo a Israele». Che, se l’italiano non è un’opinione, significa: mi auguro che tutte le opere, tutti i tentativi di risposta al bisogno umano, tutto il farsi carico della realtà che i ciellini hanno tentato e rischiato in questi anni, non vadano a ramengo. A Carrón dispiacerebbe, se la presenza pubblica del movimento dovesse subire arretramenti ed eclissi. Ma i giornalisti interpretano al contrario: finalmente, scrive il Corriere della Sera, i ciellini rinunciano alla politica, alla ricerca del potere (il Foglio, invece, fa la stessa analisi ma esprime un po’ di perplessità intorno alla svolta che crede di aver colto). Poveri illusi, i borghesi illuminati del Corriere: non sanno che i cristiani non possono rinunciare a un rapporto costruttivo e propositivo col potere. Tutti i papi del XX e del XXI secolo hanno invitato con toni pressanti i cristiani a impegnarsi nella politica, anche assumendo responsabilità di governo. Paolo VI nell’Octogesima Adveniens definì la politica «forma esigente di carità». E il servo di Dio monsignor Luigi Giussani non poteva essere da meno sull’argomento. Le citazioni potrebbero essere tante. A una conferenza al Centro culturale San Carlo nel 1987 a un interlocutore rispondeva così: «Lei invita il cristiano a desiderare il potere… Sicuro! Sono totalmente d’accordo. Qual è il nostro compito? Desiderare il potere per servire. Non c’è niente di più vicino al potere della parola amore. Gesù l’ha realizzata questa unità».

Di solito a suggerire ai cristiani di tenersi lontani dal potere sono certi non cristiani che vogliono avere l’esclusiva del potere stesso, ma soprattutto della coscienza civile e politica del popolo: è chi vuole determinare il modo di pensare e di agire della gente nella sfera pubblica che chiede ai cristiani di farsi da parte, in nome della purezza del messaggio cristiano. «Siate puri, tenetevi fuori dalla politica oppure se fate politica non portateci dentro le vostre convinzioni e le vostre esperienze cristiane, che in quanto confessionali devono restare private». Per il potere di questo mondo è più facile controllare le coscienze – comprese quelle di chi nel privato si dice cristiano – se i cristiani stanno fuori dalla politica, impegnati a coltivare o a ritrovare la loro purezza.

Ma si dà anche il caso di cristiani che, partendo da motivazioni opposte a quelle dei laicisti, sostengono le stesse posizioni: il cristianesimo non deve appoggiarsi al potere politico, ai governi e alle leggi, ma deve proporsi imbelle e impotente. Per non suscitare polemiche citando nomi di associazioni cattoliche o di personaggi pubblici e intellettuali dell’Italia repubblicana, mi limiterò a evocare il nome di un grande cristiano, straniero e protestante, che ha sostenuto e portato alle estreme conseguenze queste posizioni: Sören Kierkegaard. Per il grande danese, il cristianesimo non doveva mai poter essere identificato con la cristianità, pena la perdita del suo potenziale di alterità rispetto al mondo e il suo progressivo imborghesimento.

Ma secondo Fabrice Hadjadj, pensatore francese convertito, questo purismo rischia di fare il gioco del diavolo. In un’intervista che gli feci qualche tempo fa gli chiesi: «Lei considera due errori opposti di ispirazione diabolica sia la riduzione del cristianesimo a cristianità, cioè a istituzione secolare, sia l’opzione di una Chiesa dei pochi e dei puri, che rinuncia programmaticamente a influire politicamente. Cosa bisognerebbe fare per non cadere nella duplice trappola?». Risposta: «Che i due errori siano diabolici si vede da una cosa: un cristianesimo politicamente realizzato cadrebbe nell’orgoglio di sé, così come il ripiegamento su di sé di una piccola Chiesa di gente pura che ha rinunciato al potere provocherebbe un settario orgoglio spirituale. E l’orgoglio, lo sappiamo, è un caratteristico peccato del diavolo. Nel primo caso, la riduzione del cristianesimo a istituzione secolare ci impedirebbe di donare veramente il nostro cuore, ridurrebbe il paradosso cristiano a slogan, trasformerebbe la vocazione a essere martiri in vocazione a essere signori. Nel secondo caso, l’accontentarci di una piccola Chiesa di puri farebbe di noi una setta che guarda la società dall’alto in basso con disprezzo, e che dimentica che Cristo non è venuto per i cristiani, ma per tutti gli uomini».

Autoesiliarsi per meglio convertirsi e purificarsi è un atteggiamento elitario e soprattutto egoista, dunque non cristiano: vorrebbe dire abbandonare al loro destino i piccoli, i semplici, i non sofisticati. Che verrebbero assorbiti nel disegno del potere. La storia mostra come questo sia puntualmente accaduto ogni volta che il potere politico ha condotto coerentemente politiche ostili alla fede cristiana, ogni volta che ha “esiliato” i cristiani dentro la società stessa di cui erano parte. Le Chiese del Nordafrica, della Cappadocia e della Mezzaluna fertile sono state fra le più floride della cristianità: grandi vescovi, grandi santi, grandi monaci, milioni di battezzati. L’Africa romana presentava centinaia di diocesi al tempo di Sant’Agostino, alla vigilia dell’invasione dei Vandali, e così l’Egitto e la Cappadocia; Antiochia era la città di Pietro, Paolo, Barnaba, Luca, Giovanni Crisostomo. Oggi non è rimasto quasi nulla. È errato pensare che l’invasione prima araba e poi turca abbiano spazzato via tutto. No: Nordafrica e attuale Turchia hanno continuato per secoli ad essere regioni dove una minoranza musulmana governava su una maggioranza cristiana. Raramente i musulmani hanno costretto i cristiani a convertirsi all’islam con la forza. L’Egitto cristiano copto è stato strappato ai bizantini dagli arabi nell’anno 648, ma i musulmani sono diventati maggioranza solo nel XIII secolo; oggi costituiscono il 90 per cento della popolazione. Cosa significa questo? Che il potere politico ha favorito una religione, l’islam, e sfavorito l’altra, il cristianesimo, e questo nel tempo gradualmente ha spostato l’adesione religiosa di milioni di persone. Anche se resta una minoranza cristiana molto motivata. Non c’è stato bisogno di crocifissioni o dei leoni nei circhi, come avevano fatto all’inizio i Romani per reprimere il fenomeno cristiano: è bastata la pressione politica che ha influito sull’assetto sociale, leggi e regolamenti che premiavano i musulmani e penalizzavano i cristiani.

La controprova in positivo della decisiva influenza delle politiche del potere sulla rilevanza storica del cristianesimo, e sull’andamento delle credenze religiose in generale, la possiamo trovare in uno studio pubblicato quest’anno dal National Opinion Research Center dell’Università di Chicago. Vengono analizzati 30 paesi alla ricerca della conferma del dogma della secolarizzazione: più i paesi si industrializzano ed evolvono politicamente ed economicamente, più la posizione religiosa si fa rarefatta e il suo posto viene preso da agnosticismo e ateismo. I numeri confermano poco o tanto l’ipotesi laicista, ma con due squillanti eccezioni: la Russia e Israele. Mentre dappertutto il numero dei credenti poco o tanto flette, in Russia le professioni di ateismo sono diminuite e quelle di fede in Dio sono aumentate fra il 1991 e il 2008. Meno 11,7 per cento le prime, più 17,3 le seconde. In Israele nello stesso periodo la percentuale di atei è scesa di 9,6 punti, e quella dei credenti è aumentata addirittura di 23! In quest’ultimo caso a trasformare il paese in uno dei più religiosi fra quelli industrializzati è soprattutto l’alto tasso di natalità fra gli ebrei ortodossi, di molto superiore a quello prevalente fra gli israeliani agnostici o atei. Questo fatto colloca Israele in una posizione assolutamente anomala anche per quanto riguarda un’altra statistica: quella della fede teistica o ateistica nelle diverse classi di età. Unico dei 30 paesi analizzati, Israele conta più credenti fra i giovani sotto i 28 anni (69,1 per cento) che fra gli anziani sopra i 67 (52,7). Come si spiega l’andamento in controtendenza di Russia e Israele? Con le politiche governative favorevoli alla religione. Il comunismo è finito in tutto l’Est europeo, ma solo in Russia ha prodotto un certo ritorno alla religione. Lì, oltre all’uscita di scena del Pcus, s’è registrato un altro fenomeno: l’ascesa al potere di leader diversi fra loro (Eltsin, Putin, Medvedev) ma accomunati dalla stessa politica attiva nei riguardi della religione. Tutti hanno restituito spazio di manovra alla Chiesa ortodossa russa e hanno ricercato attivamente nella religione la legittimazione della loro autorità. Non si sono limitati a restituire la libertà di credere alla società, ma attraverso atti pratici e gesti simbolici hanno restaurato la fede religiosa nella sua funzione di collante sociale. In Israele la situazione è simile: l’ideologia dello Stato è laica, ma il sionismo ha fra i suoi obiettivi quello di uno Stato dove agli ebrei sia possibile vivere da ebrei. Da qui la grande opportunità per le comunità ortodosse di svilupparsi.

Qualcuno potrebbe dire: questi successi rischiano di essere puramente sociologici, rischiano di delineare più situazioni di transitoria egemonia politico-culturale che di profonda, autentica conversione del popolo al cristianesimo. Dunque, i cristiani debbono dedicarsi all’educazione molto più che alla ricerca del potere o di accordi costantiniani col potere di turno. Certo, l’educazione è la questione fondamentale, ed è insostituibile da qualunque altra cosa. Ma c’è un dettaglio: l’educazione ha bisogno, per essere attuata, della libertà di educazione. Così si torna alla questione politica: se il potere mortifica o rende impossibile l’educazione cristiana, gli effetti negativi si faranno sentire. Per i cristiani sarà sempre più difficile educare i propri figli e quasi impossibile offrire la propria proposta educativa all’intera società. Monsignor Luigi Giussani, che sulla centralità dell’educazione ha speso la parte maggiore della sua vita, era perfettamente consapevole di questo nodo cruciale: «Non si può giocare politicamente, è vergognoso giocare politicamente con forze che neghino la libertà educativa! A meno che ci si lavori per cambiarle, ma bisogna essere realisti: non deve essere solo un sogno, ci devono essere dei motivi solidi per sperarlo – per sperare nella tua influenza, amico mio, altrimenti perdi tempo, ti illudi. Perciò, la libertà dell’educazione è la questione principale» (all’Assemblea nazionale della Cdo, marzo 1995).

@RodolfoCasadei

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