Una coppia di anziani soli in un ospedale. Eccola, l’Italia fra vent’anni

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Milano, gennaio. L’atrio del grande ospedale dell’hinterland alle nove di mattina è un affollato crocevia di gente che corre a un appuntamento, o se ne torna reggendo pensierosa in mano la larga busta di una lastra.

Ma nel via vai frettoloso mi cadono gli occhi su una coppia anziana. Devono essere oltre i settanta, lui e lei, signorili, addosso quei classici impermeabili inglesi che “durano tutta una vita”: le scarpe accuratamente lucidate, un massiccio ma discreto bracciale d’oro al polso della donna. Due borghesi, lui forse un professionista, e lei, come si diceva una volta, la sua signora. Ben curata, fresca di parrucchiere la sua chioma grigia. Ma, non è un’ombra di angoscia quella che leggi nei suoi occhi?

I due sembrano spersi, non sanno bene dove devono andare. Lui si trascina dietro una valigia: non grande ma neppure piccolissima, quel che serve, direi, per un ricovero di una settimana. Anche la valigia, noto, è di cuoio, robusta, ben fatta, roba che dura una vita. Nel secondo atrio i due si guardano attorno disorientati, ma non domandano a nessuno una indicazione. Nella folla che li circonda rischiano di perdersi; lei, allora, protettiva stringe il braccio del marito al suo. Deve essere lui il malato, diresti, per quella sua aria pallida e inerme, mentre lei lo guida e lo conduce. «Mi pare che su quel foglio ci fosse scritto quinto piano», fa l’uomo, davanti alla fila degli ascensori che caricano e scaricano la gente concitata. No, fa lei, «era il quarto, il dottore ha detto il quarto». E intanto che esitano i nuovi arrivati li superano, li spingono da parte e prendono posto nelle cabine.

Quei due nella folla, quanto soli. Non un figlio o un nipote che li abbia accompagnati stamattina, con la valigia pesante e quei pensieri più pesanti ancora, in testa. Ma ne avranno avuti, di figli, o saranno lontani? Molto lontani devono essere, per non accompagnare in ospedale il padre vecchio e malato. «Avete bisogno di aiuto?», domandi, ma loro gentilmente declinano, con educata ritrosia borghese. Scendono al quarto piano, e li vedi che si avviano verso un lungo corridoio – poi l’ascensore chiude le portiere come un sipario, sui loro passi esitanti.

Ecco, pensi, l’Italia, fra vent’anni, quando le generazioni che non hanno voluto figli, o ne hanno voluto uno solo, saranno vecchie. E la carriera, e il lavoro prima di tutto, e la libertà vezzeggiata, e il benessere come un idolo: eccoli al capolinea i primi, che arrivano. Che gran pena per loro e per noi tutti ti coglie, come una lama di coltello, una mattina in un ospedale adagiato nella foschia della prima Brianza. Come sarà essere vecchi così, in tanti, soli, o sospesi alla pazienza di una sconosciuta, straniera badante?

Cerchi, all’uscita, quei due con lo sguardo e invece ne trovi di altri, simili a loro. Che cosa manca in questa folla veloce, in una mattina di inverno, davanti a un grande ospedale? Mancano, pensi, quelli che non sono stati. Mancano, e quanto, tutti i nostri figli non nati.

Foto anziani da Shutterstock

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