Tutti si preoccupano per la povera ricerca, ma quando tocca metterci i soldi le braccine si accorciano

Che l’Italia investisse poco, pochissimo, in ricerca e innovazione era noto ai più. Sono quelle cose che osservi anche da studente universitario, anche senza avere idea di come funzionino i finanziamenti statali. Vedi macchinari arrugginiti tenuti su col nastro adesivo, provette “usa e getta” riutilizzate all’infinito, reagenti del secolo scorso, vedi bellissimi progetti di ricerca messi in un cassetto perché costerebbero troppo.

Una volta avevamo notato i “vicini di laboratorio” mettere sistematicamente la carta bagnata sui termosifoni, in modo da poterla usare di nuovo per asciugare i banconi. Gliene abbiamo regalato due rotoloni nuovi, e sembrava fosse Natale per tutti.

Non sono casi isolati: si contano a centinaia le menti che hanno deciso di emigrare, non solo alla caccia di uno stipendio più lauto, ma soprattutto per trovare condizioni di lavoro migliori, dove le proprie idee si possano tramutare in ricerca vera, senza impantanarsi in un rugginoso sistema privo di soldi.

Abbiamo i numeri per dimostrarlo? Parla chiaro l’ultimo rapporto, presentato in questi giorni dall’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca): quando si parla di mettere le mani al portafogli per fare ricerca, e per mettere quindi le basi di innovazione per essere concorrenziali nel futuro, le braccine del pubblico e dei privati si accorciano.

Le solite scusanti – “siamo in piena crisi” o “siamo un Paese più povero degli altri stati europei” – hanno poco riscontro: le cifre rapportate al Pil (che quindi tengono conto del fatto che l’Italia non sia paragonabile ad esempio agli Stati Uniti), anche negli anni precedenti la crisi, dimostrano che, tra i paesi europei dell’Ocse, facciamo meglio solo della Grecia e della Polonia, con un infimo 0,52 per cento del Pil investito in ricerca dal pubblico, e altrettanto dal privato. Arriviamo all’1,3 per cento, la metà della media Ocse.

Napolitano esprime preoccupazione, il ministro Stefania Giannini promette di pensarci. Nel frattempo che loro ci pensano e si preoccupano, la qualità della ricerca rimane non eccellente ma comunque alta: sopperiscono con l’ingegno, i nostri ricercatori, ma se noi volessimo di più?

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