Te Deum laudamus per aver curato i feriti peshmerga

Come medico sono stato sulla linea del fronte di combattimento contro gli islamisti dell’Isis. Noi curdi non siamo come loro

Articolo tratto dal numero di Tempi di dicembre (attenzione, di norma l’accesso agli articoli del mensile è riservato agli abbonati: abbonati subito!

Mi chiamo Mahmood Hafdullah Shamsddin e sono un medico curdo iracheno di 28 anni che si sta specializzando in cardiochirurgia al Policlinico di San Donato Milanese. Dovrei ringraziare le persone che mi hanno permesso di venire in Italia a studiare facendosi carico delle spese, cioè gli amici della Ong Cuore Fratello e la signora Iole Pinto di Iniziative di Solidarietà, che da tanti anni aiuta il popolo del Kurdistan iracheno. Ma prima di tutto ringrazio Dio perché ha conservato fino ad oggi la mia vita e quella di tutti i miei familiari: padre, madre e sette fratelli e sorelle, dei quali io sono il più piccolo. Vi assicuro che questa è una cosa per nulla comune in Iraq.

Negli ultimi quattro anni ho lavorato come medico presso l’ospedale di Duhok, nei campi per profughi e sfollati e in prima linea nei corpi sanitari dei peshmerga durante la guerra con l’Isis, e ho visto morire decine di persone: combattenti e civili, adulti e bambini. Mi ero laureato da pochi mesi, e già dovevo partire per il fronte per prestare il primo soccorso ai combattenti curdi che cercavano di fermare l’avanzata del Daesh nella piana di Ninive e verso Erbil e Kirkuk. Ho trascorso i primi due mesi a Teleskoff, la cittadina cristiana della Piana di Ninive che ha cambiato di mano quattro volte nel corso della guerra, e poi altri quattro mesi in altre località dove si combatteva e dove affluivano feriti. Non ho mai potuto lavorare in un vero ospedale da campo perché noi curdi non ce lo potevamo permettere: a causa delle tensioni politiche da qualche anno il governo centrale ha sospeso i trasferimenti di risorse al Krg, il Governo regionale del Kurdistan, e di forniture ai nostri ospedali; di conseguenza le nostre strutture sanitarie soffrono di molte carenze. Dunque ci limitavamo al primo soccorso, a stabilizzare i feriti che arrivavano e che poi venivano avviati agli ospedali di Erbil e Duhok. Qualche volta estraevamo schegge o proiettili.

A Teleskoff per la prima volta ho incontrato un ferito dell’Isis, un prigioniero che aveva una scheggia nell’addome e contusioni alle gambe, ma che non si è voluto lasciare operare da me perché aveva paura che l’avrei fatto morire durante l’intervento. Si vedeva che era stato malmenato nel corso della cattura e temeva di peggio. Ma la verità è che noi non abbiamo mai fatto a loro quello che loro hanno fatto ai nostri. Infatti quando nel 2017 l’Isis è stata sconfitta dalla coalizione fra governativi iracheni, milizie sciite e peshmerga curdi, i combattenti dell’Isis se potevano si arrendevano ai curdi piuttosto che agli sciiti. Quell’uomo l’abbiamo mandato all’ospedale di Duhok con un semplice bendaggio.

I curdi, come sapete, soffrono da sempre in Iraq. Io sono nato in un villaggio del governatorato di Duhok, ai confini con la Turchia, subito dopo la fine dell’Anfal e subito prima della Prima Guerra del Golfo. Anfal è il nome della campagna militare che Saddam Hussein scatenò contro i curdi fra il 1986 e il 1989, che causò oltre 100 mila morti. Ad Halabja, un villaggio curdo ai confini con l’Iran, 5 mila persone furono sterminate in un attacco con le armi chimiche.

Condannato a morte

Il nome di Anfal deriva da quello di una sura del Corano, quella che tratta del bottino di guerra. Il nome fu scelto per suggerire l’idea che quella contro i curdi era una guerra contro gli infedeli nel nome di Dio, ed era lecito razziare tutte le loro proprietà e impadronirsi delle loro donne. Mio padre fu arrestato e condannato a morte per impiccagione accusato di alto tradimento, perché aveva prestato le sue cure a feriti peshmerga: era infatti un infermiere di pronto soccorso, e accompagnava i medici fuori dall’ospedale quando arrivavano chiamate di aiuto. Rimase in prigione per un anno e poi fu rilasciato insieme ad un altro infermiere arrestato insieme a lui: il governo non voleva privarsi dei servizi di medici e paramedici, così annullò la prima sentenza. Ma tutti gli altri compagni di cella e di prigionìa di mio padre furono impiccati.

Non dovete pensare che i lunghi anni di sofferenze ci abbiano resi insensibili al valore della vita umana. Quand’ero in prima linea, un giorno ho trovato in infermeria un nostro combattente che non aveva ferite, ma era sotto shock. Piangeva e rideva nervosamente, non parlava con nessuno. Mi hanno raccontato che aveva sparato a un veicolo proveniente dal territorio controllato dall’Isis, convinto che si trattasse di un attentatore suicida, invece era un uomo che viaggiava con due suoi figli. L’uomo era rimasto ucciso, e i ragazzini erano fuggiti terrorizzati attraverso il deserto. Lui era distrutto per quell’errore.

I sette bambini soldato

A volte l’Isis lasciava passare veicoli di civili arabi attraverso le linee, poi sparavano al conducente mentre attraversava la terra di nessuno e aspettavano che i peshmerga si avvicinassero a soccorrere il ferito e i passeggeri. Allora aprivano di nuovo il fuoco per uccidere tutti. Una volta ho soccorso un peshmerga che aveva salvato una donna e i suoi figli dopo che quelli dell’Isis avevano colpito il marito che con l’auto la stava portando all’ospedale, perché era stata punta da uno scorpione. Era ferito alle gambe e il giubbotto antiproiettile era tutto sforacchiato, ma il suo volto era radioso: «Continuavano a gridare e a invocare aiuto da dentro all’auto, non potevo abbandonarli là in mezzo!». Aveva rischiato la sua vita per una famiglia di arabi.
Nel 2017 sono stato di servizio in molte località vicine alla linea del fronte. In un villaggio di nome Sahlij arrivavano molte corriere piene di civili provenienti da Mosul: erano i familiari dei combattenti dell’Isis, che loro spedivano oltre le linee per evitare che restassero uccisi nei combattimenti. Non potevano più mandarli in Siria e allora accettavano l’idea che diventassero prigionieri di noi curdi.

Nel nostro dispensario furono ricoverati 7 bambini soldato che avevano fra i 10 e i 12 anni. Avevano le divise militari, alcune in stile afghano, ed erano uzbeki, turchi e iracheni. Uno di loro, Omar, era mutilato: aveva 12 anni e aveva già perso una gamba in combattimento. La sera, quando passavo per la medicazione, lo trovavo sempre che piangeva e chiedeva quando avrebbe potuto rivedere sua madre. Io cercavo di consolarlo. Ci ha chiesto se potevamo trovargli una play station per poterci giocare, e insieme a un volontario medico norvegese ne abbiamo comprata una e gliela abbiamo regalata.

Anche se avevano ricevuto addestramento militare e avevano combattuto, erano solo dei bambini silenziosi e impauriti. Non si sono mai mostrati aggressivi con noi. Ricordo ancora alcuni dei loro nomi: Omar, Ibrahim, Ismael, Sara e Lameh, che erano due bambine. Uno di loro morì di polmonite nonostante le nostre cure. Un giorno giunse l’ordine di consegnarli ai militari iracheni; c’era stato un accordo coi vertici dei peshmerga, e noi abbiamo dovuto obbedire. Non so cosa ne sia stato di loro, nessuno ci ha più dato notizie, ma io ogni tanto penso a loro, riguardo le foto che gli avevo scattato col cellulare quando erano con noi e ricordo tutto.

Al servizio dei malati

Da bambino i miei genitori mi portavano spesso in ospedale, perché non ero stato vaccinato a causa del fatto che vivevamo in mezzo alle montagne e c’era quasi sempre la guerra, e mi ammalavo spesso di malattie infettive. I medici erano gentilissimi con me, sorridevano sempre; così è nato in me il desiderio di diventare come loro. Ho sempre desiderato poter aiutare le persone, e fare il medico ha realizzato la mia aspirazione. Grazie alle dottoresse curde e italiane che ho incontrato nei campi profughi ho potuto essere selezionato per la specializzazione in cardiochirurgia qui in Italia, e sono grato a loro e a Dio di questa opportunità.

Sono un musulmano, ma non sono un islamista: non posso accettare quel modo lì di vivere la fede. Pregherò tutta la vita Dio per ringraziarlo dei suoi doni, ma soprattutto Lo ripagherò col mio impegno al servizio dei malati: questo è il modo giusto di ringraziare Dio.

Foto Ansa

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