Svedesi in fuga dalla Svezia

Ghetti, bombe, sicari-bambini. Ignorare le conseguenze esplosive del multiculturalismo nell’ex Shangri-La dell’accoglienza in Europa non è più possibile. E c’è chi inizia ad andarsene

«È ora di cominciare a confiscare e demolire le moschee in cui si diffondono messaggi antidemocratici, antisvedesi, omofobi e antisemiti, e in cui si fa disinformazione»: le dichiarazioni del leader di estrema destra Jimmie Åkesson hanno costretto il primo ministro svedese Ulf Kristersson a ribadire che in Svezia « la libertà di culto è garantita dalla costituzione», «non demoliamo i luoghi di culto», «dobbiamo combattere l’estremismo rispettando i nostri valori e lo stato di diritto», ma dicono molto del clima che si respira nel paese delle «due società parallele» (non è una frase di Akesson ma di Magdalena Andersson, ex premier socialdemocratica).

Il paese dei roghi del Corano. Del “modello porte aperte” che ha trasformato in una polveriera lo Shangri-La ultra-sicuro svedese, lo Stato che fu vetrina della socialdemocrazia e del progressismo nel paese del più alto tasso di violenza armata letale in Europa: una sparatoria al giorno, un attentato a settimana. E che dopo la barbara esecuzione dei due tifosi svedesi a Bruxelles in nome dell’Isis non trova più parole per difendere il multiculturalismo.

«Siamo diventati i numeri uno ad esportare criminalità»

Certo, ha spiegato il giornalista Ivan Arpi nell’ultimo episodio del Brendan O’Neill Show, la maggioranza degli svedesi resta ovviamente «contraria ai roghi del Corano» e le reazioni in seguito agli attacchi di Hamas ad Israele sono state condizionate dal solito tic elettorale, «ricordatevi che tutti gli islamisti sono musulmani, ma non tutti i musulmani sono islamisti». Ma i mea culpa di moltissimi personaggi pubblici, giornalisti e accademici «che si stanno rendendo conto di avere avuto torto riguardo all’islamismo e al multiculturalismo» sono sempre più numerosi ed evidenti.

«C’è stato un enorme cambiamento nel modo in cui il mondo percepisce la Svezia e nel modo in cui noi svedesi percepiamo noi stessi – spiega Arpi -. Eravamo i numeri uno quando si trattava di esportare musica, come gli Abba. Ora siamo i numeri uno nell’esportazione di criminali violenti. Ad eccezione del Messico, contiamo il maggior numero di attentati con le bombe in un paese in tempo di pace. E le bande criminali che pianificano tutto questo sono, ovviamente, assolutamente brutali. Le sparatorie e gli omicidi sono compiuti da sicari che sono spesso giovani uomini o addirittura bambini».

«In Svezia gli svedesi sono diventati irrilevanti»

Le bombe sono solo la punta di un iceberg documentato da tanti reportage internazionali da città come Göteborg o Malmö, in particolare dai quartieri di Rosengård, dove si parla solo arabo e da oltre un decennio «i vigili del fuoco e i servizi ambulatoriali si rifiutano di entrare senza la scorta della polizia», o Bennets Väg, la «no go area», una sorta di “zona vietata nella zona vietata” cintata da nastri oltre i quali non si avventurano nemmeno le volanti.

«Stiamo rapidamente diventando uno dei principali paesi di transito della cocaina» e stanno cambiando le persone: dopo anni di narrazioni delle élite culturali tese a ridimensionare il problema (lo scrittore Jacob Sundberg ricordava quando Jan Guillou, probabilmente il più famoso editorialista svedese, il problema delle vittime di violenza armata a quello delle persone che si feriscono «scivolando nella vasca da bagno») «l’atmosfera sta decisamente cambiando in Svezia. Ho amici che conosco da tutta la vita, comunisti e filo-palestinesi, e anche loro stanno cambiando prospettiva. Molti si sono resi conto che non siamo più il Paese di una volta. E che se non facciamo nulla adesso, presto potrebbe essere troppo tardi». Perché a prevalere ora è «un sentimento di disperazione. In ampie zone della Svezia, la cultura svedese e anche gli stessi svedesi sono diventati del tutto irrilevanti. L’unica cosa rilevante in quelle zone oggi è come ottenere aiuti governativi e cosa poterla fare franca senza che la polizia venga coinvolta. Per molti nuovi migranti, questa è davvero l’unica relazione che hanno con la Svezia».

La fuga degli svedesi e dei migranti integrati

In quelle zone non esistono più madrelingua svedesi, «non c’è alcuna mescolanza» tra migranti e autoctoni, «vivono in quartieri diversi e i loro figli frequentano addirittura scuole diverse. E in genere si tratta di quartieri molto degradati ed economicamente svantaggiati». Una volta, spiega Arpi, chiunque fosse costretto a vivere in questi quartieri andava a scuola, trovava un lavoro e si trasferiva altrove, tra gli svedesi. L’integrazione funzionava, prova ne è che «oltre un terzo di tutti i medici svedesi sono nati all’estero. Molte delle prime coorti di migranti sono incredibilmente ben assimilate. Si vedono e sono visti come svedesi».

Ma questo oggi non succede più. I quartieri sono diventati ghetti, non si scappa da lì e nemmeno dall’unico destino a portata di chi non ha casa né lavoro: la criminalità. Impossibile fare i conti con «la velocità e la portata della migrazione di massa negli ultimi anni». Il risultato è che nel paese più accogliente tollerante del mondo sono gli stessi svedesi e i migranti integrati ad andarsene. «Conosco persone che hanno lasciato le loro case e persino il paese a causa della crescente violenza e della criminalità organizzata», spiega Arpi, restituendo meglio di ogni altra dichiarazione di Akesson la prospettiva degli svedesi stritolati dalla convivenza impossibile tra sogno liberalista e ghetto islamico. «Hanno dei figli che devono proteggere».

Foto Ansa

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