La truffa di chi ha usato Mario per «fare giurisprudenza» sul suicidio assistito

Media soddisfatti e Radicali esultanti dopo la morte del tetraplegico marchigiano in seguito a iniezione letale. Così la cura smette di essere un'opzione, la "diga" sta per crollare

Federico Carboni, soprannominato “Mario” da Radicali e giornali per raccontare la sua storia, si è suicidato giovedì 16 giugno (foto Ansa)

Come prevedibile, il suicidio assistito di “Mario”, al secolo Federico Carboni, il primo legalmente autorizzato in Italia, è stato raccontato con parole mielose, sentimentalismo e positività dai media: la “battaglia vinta”, il “commiato con il sorriso”, la “libertà di volare”.

I corpi di Mario e Fabio usati dalla politica

Come nel caso del 46enne tetraplegico Fabio Ridolfi, morto lunedì scorso in sedazione profonda dopo avere deciso di sospendere nutrizione e idratazione, a nessuno è davvero importato che Federico sia morto. Nei commenti sui giornali trasparivano soddisfazione e sollievo, non uno che si sia chiesto cosa avremmo potuto fare per evitare che un uomo si riducesse a preferire la morte alla vita. Anzi, «se mi riducessi così lasciatemi andare», ha urlato Emma Bonino dalle pagine di Repubblica, l’autoproclamato “giornale dei diritti” che nelle stesse ore sciacallava sul cadavere ancora caldo di Federico chiedendo al segretario del Pd Enrico Letta, in piazza a Bologna, di sbrigarsi a fare una legge sul suicidio assistito. Il corpo senza vita di Federico è stato usato come bandiera da editorialisti e scrittrici progressiste, e naturalmente dai Radicali.

Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, ha scritto con Filomena Gallo un editoriale sulla Stampa in cui reclama il merito di «avere fatto giurisprudenza» con la morte di Federico Carboni, il quale avrebbe potuto suicidarsi già almeno due anni fa in Svizzera, ma è stato tenuto in vita (quella vita a detta di tutti insopportabile e inutile) perché anche in Italia si potesse morire a piacere. Ma quale legge, si è affrettato a spiegare lo stesso Cappato su Repubblica ieri, «peggiorerebbe le cose, meglio restare senza». Alla faccia dei paletti, dei casi limite, ora che si è visto che in Italia ci si può suicidare con l’ok di un giudice perché rischiare di avere una legge, il piano è già bello inclinato così.

Le alternative al suicidio assistito ci sono

«È diventato “ovvio” ormai», scrivevamo dopo la morte di Fabio, «che un’esistenza del genere non vale la pena di essere vissuta. Non vale la pena di soccorrere una persona ridotta come il “caro Fabio”, prendersene cura. Assistere significa sopprimere dignitosamente. Per non essere “crudeli” e “indifferenti” bisogna somministrare la morte senza indugi». Il prossimo passo è il suicidio come diritto benedetto dallo Stato, il segretario del Partito democratico ha promesso che si farà presto, Fabio e Federico saranno note a piè di pagina dei nuovi manuali di Diritto al suicidio, usati come moniti affinché nessuno si chieda se c’è un’altra possibilità, se davvero la morte è l’unica cura.

Inascoltato, ieri Massimo Gandolfini ha scritto sulla Verità che «c’è un alternativa al suicidio di Stato. Un’alternativa che aiuterebbe i malati e i propri familiari nel cammino di sofferenza determinato da una gravissima disabilità. Si chiama medicina palliativa, è prevista da una legge del 2010 ma non viene sostenuta. Preferendo, invece, uccidere chi soffre». Non è vero che chi soffre è prigioniero dello Stato e non può morire, ha spiegato l’oncologa Sylvie Menard: «Abbiamo già il diritto di rifiutare qualsiasi cura e di morire quando vogliamo, senza bisogno di legittimare l’orrore dell’eutanasia. Basta rifiutarsi di mangiare e bere, ed entro 5 o 6 giorni si muore, naturalmente sedati per non soffrire. La sedazione è un diritto e non viene negata a nessuno, non è eutanasia».

Un incontro a Bologna sul fine vita

La questione, a cui tutti siamo chiamati a rispondere davanti alle vicende di Fabio e Federico, è che «è molto più impegnativo garantire a tutti il diritto alla cura che fare un’iniezione mortale». Chi sta usando i loro corpi in questi giorni con l’obiettivo di trasformare lo stato e i medici in boia lo sa. Sylvie Menard interverrà lunedì 20 giugno a Bologna, alle 21, all’incontro “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi – Le leggi e la cura nel fine vita”. Con lei ci saranno il neopresidente della Cei e arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, il docente di bioetica Alberto Frigerio, il magistrato di Cassazione Francesco Cortesi.

«Se noi lasceremo passare questo [l’eutanasia, ndr], crollerà la diga, come già avvenuto in Svizzera», diceva ancora Menard ad Avvenire. «Chi si ammalerà di depressione avrà il suo kit, non si cercherà di curare la sua solitudine o le cause del suo malessere – che sia un lutto o un amore fallito o altro –, gli si faciliterà la morte. Se passasse in Italia una legge per l’eutanasia sarebbe la fine della nostra civiltà».

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