Stamina: il diavolo si compiace del diritto alla speranza sancito per ordine di un giudice

Il Tribunale di Roma ha imposto all'ospedale di Brescia di somministrare a una donna la terapia di Vannoni sebbene sia priva di scientificità

Mio caro Malacoda, la scienza (vera o presunta che sia) traccia il solco e il tribunale lo difende. Un tribunale che sancisca un nuovo diritto lo si trova sempre. A Roma hanno stabilito che esiste anche “il diritto alla speranza”. Non il diritto nel senso comune, per cui uno può sperare anche nelle situazioni più disperate, ciò che noi diavoli detestiamo di più soprattutto dei cristiani e di quel Paolo di Tarso che osò scrivere “spes contra spem”. No, il diritto nel suo significato giuridico, con le conseguenti implicazioni di doveri altrui.

Il caso è quello del controverso metodo Stamina. Il Tribunale di Roma ha ammesso il ricorso di una donna e ha ordinato all’azienda ospedaliera Spedali Civili di Brescia la somministrazione del trattamento con cellule staminali secondo il protocollo Stamina Foundation. La donna è affetta da sclerosi multipla dal 1982 e si era già sottoposta a tutte le terapie convenzionali. L’ordinanza è stata emessa con la motivazione che «il diritto alla speranza dei malati non può essere irragionevolmente limitato o soppresso». Limitazione introdotta nei confronti del metodo Stamina dal decreto Balduzzi. Non che una persona non possa privatamente decidere di curarsi in tal modo, ma non può esigere, dice il decreto, che questo trattamento le venga fornito da un ospedale pubblico.

I sostenitori dell’accesso libero e garantito al metodo Stamina, a sostegno del diritto alla speranza come “diritto fondamentale”, citano l’articolo 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Rileggilo bene, nipote, la parola speranza non compare. Non in questo articolo né in tutti gli altri 138 della Carta. Non è cosa che la legge possa garantire. Né è pratica cui la legge possa obbligare qualche medico, imponendogli la somministrazione di cure richieste dal paziente ma della cui scientificità ed efficacia il medico non ha riscontri.

Ah, la scienza! Il segreto è invocarla quando gioca a favore dei propri desideri, respingerla quando li contrasta. Se un singolo scienziato annuncia la clonazione umana (un falso), la stampa se la beve e proclama la prossima soluzione genetica di ogni malattia. Se il Comitato scientifico incaricato della verifica del metodo valuta che «mancano i presupposti di scientificità e sicurezza per avviare la sperimentazione clinica», si tratta di «teste d’uovo che se ne infischiano dei malati e dei loro familiari». E quindi impedire cure con un metodo ritenuto dalla medicina mondiale indimostrato rappresenta una limitazione «irragionevole». Con tanti saluti alla sbandierata razionalità della scienza.
Ricorda nipote, quando non serve l’appello al razionalismo usa i sentimenti. Gli uomini poco ragionevoli pencolano facilmente tra l’uno e gli altri. Con questo risultato paradossale: gli stessi sostenitori del “diritto alla speranza” teorizzano senza coscienza di contraddizione l’eticità dell’eutanasia, quando non del suicidio assistito, cioè del “diritto alla disperazione”. Il nostro trionfo.
Tuo affezionatissimo zio Berlicche

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