Scuola, la non riforma all’esame. Fra tante promesse e altrettante perplessità

Assunzione dei precari, autonomia, alternanza tra aula e officina. Qualcosa si muove. Il “patto educativo” proposto dal premier Renzi visto dagli addetti ai lavori

«C’è una meta, non una via», scriveva Franz Kafka all’inizio del secolo scorso, quando ancora la tanto discussa riforma Gentile sulla scuola era in procinto di vedere la luce. E ora, che sono trascorsi quasi cent’anni dalla riforma che ha consegnato all’Italia la struttura dell’istituzione scolastica come ancora la si conosce oggi, con il suo liceo classico e lo scientifico, gli istituti tecnici e quelli professionali, quella frase gode ancora di una certa attualità. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi, infatti, dopo aver annunciato e poi smentito la nuova riforma della scuola, l’ha prestigiosamente sostituita, in occasione della conferenza stampa, con quello che lui stesso ha dichiarato essere un «patto educativo, non l’ennesima riforma che vi promettono i politici». Aprendo così un lavoro per «ripensare a come l’Italia investe sulla scuola». L’obiettivo, dunque, rimane quello di riformare la scuola. Ma non è chiara la strada che il governo intende percorrere.

«È una cosa diversa», ha spiegato Renzi, promettendo un confronto nei prossimi due mesi con chiunque partecipi alla vita della scuola, famiglie, professori, presidi e alunni in primis, prima di passare alla scrittura dei provvedimenti legislativi. Si tratta di un «patto» che, si legge nelle 130 pagine del documento del ministero dell’Istruzione sul quale si svolgerà il paragone, ha l’obiettivo di «dare al paese una Buona Scuola», come si intitola il testo. Un «investimento di tutto il paese su se stesso». Che, però, non vedrà la luce prima di settembre 2015. E come realizzarlo? Sul punto, il documento è povero di proposte concrete ed evasivo circa le coperture economiche che, come è noto, competono al ministero dell’Economia, il vero imbuto dove si arena ogni serio tentativo di riformare la scuola. Dopo i sindacati, i più tempestivi a sollevare critiche sono stati i presidi di Disal (Dirigenti scuole autonome e libere), l’associazione professionale, riconosciuta dal Miur, che riunisce i dirigenti di scuole statali e paritarie, per i quali parlare di «meccanismo», come fa il documento diffuso dal governo, significa sposare «una logica funzionalista e populista che evita di mettere a fuoco la domanda fondamentale in questo momento di crisi: a cosa serve la scuola? Ovvero quale concezione urge in questo momento storico e quindi quali strumenti e soluzioni mettere in campo e garantire perché il contesto di ciascuna scuola sia messo in grado di realizzare il suo fine». In particolare, Disal evidenzia alcune criticità per ciascuno dei tre grandi temi su cui è impostata la “Buona Scuola”: assunzioni dei precari, autonomia scolastica e rapporto tra scuola e lavoro.

E le coperture finanziarie?
Il piano straordinario per assumere, a settembre 2015, 150 mila docenti (tutti i precari storici iscritti nelle graduatorie a esaurimento e tutti i vincitori e gli idonei dell’ultimo concorso) occupa «un terzo dell’intero documento», ha fatto notare Cisl scuola. Ma a preoccupare Disal è come sia «possibile assumere l’impegno di 150 mila assunzioni senza implicare il tema delle risorse finanziarie»; e come sia possibile «parlare di organico funzionale delle scuole senza parlare di aumento della spesa pubblica». L’«organico funzionale», ha spiegato Renzi, dovrebbe essere quel contenitore dove collocare almeno 60 mila docenti che resteranno a disposizione degli istituti per supplenze e attività complementari: una sorta di “task force” dell’insegnamento che dovrebbe eliminare l’annoso problema delle supplenze brevi. Peccato però, fanno notare i presidi, che ciò comporterebbe «l’aumento del 10 per cento di personale proprio in periodi dove abbiamo sentito la necessità di provvedere a tagli e risparmi di spesa».

Per la cronaca, secondo gli unici conti presenti nelle pagine della Buona Scuola, debellare la «supplentite», come auspicato dal premier, garantirebbe un risparmio di circa 300 milioni di euro l’anno; mentre l’inserimento in pianta stabile nel corpo docente di ulteriori 150 mila professori costerebbe alla collettività 3 miliardi di euro, di cui 1 entro la fine del 2015, per salire, poi, dopo dieci anni, a oltre 4,1 miliardi per effetto degli scatti di stipendio.

Ma c’è un ulteriore timore, su cui ha acceso la spia il presidente di Treellle Attilio Oliva sul Sole 24 Ore. È quello che i sindacati, «incassate le assunzioni, si mettano di traverso su tutto il resto. Anche perché il documento sembra dare per scontato che non ci saranno più contrattazioni sulla retribuzione e che il rapporto di lavoro dei docenti sarà in futuro regolato solo per via di legge. Difficile pensare – prosegue Oliva – che un tale esproprio delle prerogative sindacali passi senza resistenze e proprio qui si misurerà la determinazione del governo Renzi». I sindacati, intanto, hanno cominciato ad alzare la voce. Chiedendo l’apertura di un tavolo per discutere il rinnovo del contratto degli insegnanti, fermo da sette anni, la Federazione dei lavoratori della Conoscenza (Flc) della Cgil, ha fatto sapere che «è disponibile al confronto. Ma è pronta alla lotta se non si accettano le ragioni dei lavoratori». Non è difficile immaginare che siano pronti a preparare i picchetti anche in tema di valutazione e riconoscimento del merito di insegnanti, presidi e istituti.

Sull’ampio capitolo dedicato al governo delle scuole, invece, il documento ministeriale afferma che «dobbiamo realizzare pienamente l’autonomia scolastica»; ma, si domandano i presidi di Disal, «come si fa a confermare come ottimale la previsione di formare i futuri dirigenti scolastici che superano le prove di selezione del prossimo concorso statale attraverso la frequenza della nuova scuola della pubblica amministrazione, quando la funzione del preside non può che attingere a competenze relazionali, pedagogiche e direttive da formare» sul campo?

Il futuro delle paritarie
E per quanto riguarda l’autonomia? Secondo il documento “Buona Scuola” l’Italia «dispone già di tutte le norme necessarie per attuare l’autonomia scolastica». Ezio Delfino, presidente di Disal, non è assolutamente d’accordo. Spiega a Tempi: «L’autonomia prevista dalla legge Bassanini non ci consente di assumere le persone di cui abbiamo più bisogno; per di più il finanziamento pubblico arriva centellinato. È un’autonomia, se così si può dire, “vigilata”. Mentre dovrebbero essere date alle scuole quote capitarie di finanziamenti in base al numero degli alunni sul territorio ed essere lasciate libere di assumere chi vogliono. Se autonomia deve essere, che lo sia fino in fondo». Come vorrebbe il Titolo V della Costituzione.

Perplessità anche tra le scuole paritarie, per le quali lo Stato spende ogni anno poco meno di 500 milioni di euro, a fronte degli oltre 57 miliardi sborsati per quelle statali. “Buona Scuola”, infatti, che pure contiene la perifrasi «tutte le scuole pubbliche, statali e paritarie», non va oltre il proposito per cui «servirà lavorare per dare alle scuole paritarie maggiore certezza sulle risorse loro destinate». Di sconti fiscali a favore delle famiglie che scelgono le paritarie nemmeno l’ombra. Con buona pace della libertà di scelta educativa sancita dalla Costituzione e dalla legge Berlinguer. Motivo per cui Francesco Macrì, presidente di Fidae, l’associazione che riunisce le scuole cattoliche italiane, ha ammonito: «L’impianto del progetto ricalca sostanzialmente il tradizionale modello “statalista” che, proprio nel segno dei princìpi dell’autonomia e della sussidiarietà evocati, avremmo desiderato fosse superato con più coraggio e determinazione perché, a differenza di quanto avviene nella gran parte degli Stati europei, relega la scuola paritaria italiana, nonostante il suo “servizio pubblico” e di “pubblico interesse”, ai margini del sistema».

Lontani dal modello tedesco
C’è poi la sezione dedicata al rapporto tra il mondo della scuola e quello del lavoro. L’obiettivo è quello di individuare una «via italiana al sistema duale». Un esempio potrebbe essere il modello tedesco, dove la formazione tecnica e professionale avviene direttamente in azienda grazie all’apprendistato giovanile. In concreto si vuole rendere «l’alternanza scuola-lavoro obbligatoria negli ultimi tre anni degli istituti tecnici e professionali per almeno 200 ore l’anno». Per farlo «occorre passare dagli 11 milioni di euro stanziati nel 2014 per l’alternanza a circa 100 milioni di euro all’anno». È «l’inizio di una rivoluzione», ha spiegato a tempi.it il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, soprattutto se si considera che quello dell’alternanza «è un tema su cui in Italia si è sempre incontrata una forte resistenza ideologica, soprattutto a sinistra». Ma è anche vero che, come sottolinea Disal, «il modello tedesco prevede la doppia frequenza a partire dai 14 anni», e non dai 18-19 come avviene da noi. Senza contare che 200 ore sono comunque un quinto dell’orario scolastico, mentre in Germania gli studenti trascorrono quattro giorni in azienda e uno a scuola.

«Non mi aspettavo un miracolo», confida a Tempi suor Anna Monia Alfieri, docente presso la divisione no profit e impresa sociale di Altis, scuola di formazione dell’Università Cattolica. Anzi, valuta positivamente il fatto che non sia arrivato in extremis l’ennesimo decreto concepito senza ascoltare chi quotidianamente partecipa alla vita della scuola. La scelta del patto educativo, spiega suor Alfieri, «implica reciprocità ed è l’occasione per alzare la voce e farci sentire». Poi aggiunge: «È evidente che non aver voluto partire dal principio della libertà educativa è una scelta “di sinistra”. Noi, però, non perdiamoci proprio adesso in diatribe sterili. Si tratta solo di un piccolo spiraglio? Pazienza, dobbiamo sfruttare questa occasione senza pregiudizi».

La libertà di scegliere
Anche l’onorevole Elena Centemero, responsabile scuola e università di Forza Italia, dice a Tempi di essere soddisfatta che «il premier Renzi e il ministro Giannini abbiano scelto di proporre un “patto educativo”, perché ogni intervento sulla scuola deve essere condiviso dalle famiglie per il bene degli studenti». E aggiunge: «Positivo è soprattutto il proposito di voler valorizzare i docenti attraverso il riconoscimento del merito e la valutazione», precisando che «è stato proprio il governo Berlusconi a istituire per la prima volta il Fondo per il merito e a premiare gli insegnanti più capaci». Mentre preoccupa «la mancata indicazione delle coperture, come nel caso dei provvedimenti per l’assunzione dei precari». E se si vuole «rafforzare l’autonomia scolastica, si assegni ai dirigenti l’autonomia finanziaria indispensabile per realizzarla compiutamente». Quanto alla libertà di scelta educativa, fa presente Centemero, «il silenzio è assordante, perché alle famiglie interessa la possibilità di scegliere liberamente tra scuole statali e paritarie». Senza dover subire discriminazioni di carattere economico. Per questo sarebbe utile introdurre, «a fondamento di tale libertà, il principio dei costi standard». Un’altra cosa di cui in Buona Scuola non si parla.

@rigaz1

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