I nativi americani che vogliono di nuovo essere chiamati “Redskins”

A Washington la Native American Guardians Association chiede alla squadra di football dei Commanders di tornare allo storico nome, cambiato pochi anni fa perché razzista. Cortocircuito servito

Magliette dei Redskins in saldo in un negozio di Washington nel luglio 2020, poco prima che la storica squadra di football cambiasse il proprio nome in Washington Commanders (foto Ansa)

Non è bello usare l’inglese quando si potrebbe usare l’italiano, ma a volte serve a spiegare: e pushback è parola perfetta. Indica la reazione, umana e comprensibile, di chi si sente spinto in una direzione e si rivolta, spingendo nella direzione opposta. Pushback, nell’accezione moderna, indica l’opposizione sensata a movimenti che appoggiandosi a una maggioranza di media, generalmente non rispecchiata nella gente reale, cercano di imporre modelli, mode e tendenze fortemente ideologizzate, spesso facendo leva su surreali sensi di colpa inculcati alla maggioranza fin troppo silenziosa dei cittadini.

Fenomeno particolarmente evidente dal 2020 in poi, su più piani, ma che era già germogliato da anni nel fanatismo intransigente e violento delle università americane, laboratori (come del resto molte scuole italiane, specialmente elementari e medie) di indottrinamento privo di qualsiasi supervisione.

Quando i Redskins diventarono Commanders

Tra i movimenti che hanno tratto forza da questo clima di intransigenza c’è stato anche quello per l’abolizione di nomi e simboli ispirati alla cultura dei nativi americani, o indiani come li si è chiamati anche da noi per tanto tempo. Onda che era partita da molto tempo, e chi legge Tempi lo sa: già a fine anni Novanta alcuni licei e alcune università non note ma prestigiose, come Wisconsin-La Crosse, avevano cambiato il nome alle proprie squadre sportive, da Indians a Eagles nel caso specifico, reso ancora più significativo perché la città di La Crosse prende il nome dal passatempo dei nativi americani poi diventato sport con il nome, appunto, di lacrosse.

Col passare del tempo il fenomeno si è allargato: poco alla volta, perché non di primaria importanza e portato avanti da una minoranza rumorosa e determinata ma non ancora in grado di condizionare con il suo fanatismo il dibattito pubblico, come è invece accaduto nell’ultimo decennio. È del 2021 la decisione dei celeberrimi Cleveland Indians, della MLB ovvero massimo campionato di baseball, di diventare Cleveland Guardians, mentre i leggendari Washington Redskins, formati nel 1932 come Boston Braves (altro nome di ispirazione nativo americana), sono diventati Washington Football Team nel 2020 e Washington Commanders nel 2022, nomi sciapi che non entusiasmano praticamente nessuno.

Il nome “Redskins” e la storia dei nativi

Un dilemma non facile, sul piano etico: se è vero che non si dovrebbero mai usare nomi offensivi, è anche vero che nel clima degli ultimi due decenni esiste la già citata maggioranza silenziosa che scuote la testa di fronte a certe follie e si insospettisce di fronte a certe coincidenze, che tali non sono, perché in realtà figlie del conformismo. Gli Indians ad esempio annunciarono la decisione di una revisione del nome poche settimane dopo la morte di George Floyd, il pregiudicato ucciso da un poliziotto, e nel pieno delle manifestazioni di protesta e violenza susseguitesi negli Stati Uniti e rimaste perlopiù impunite.

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Tornando a Washington, il simbolo dei Redskins, un fiero capo indiano, era oltretutto stato disegnato nel 1971 proprio da un nativo americano ed elogiato ancora nel 2014 da Don Wetzel, non un tizio qualunque ma il figlio di Walter ‘Blackie’ Wetzel, consulente del presidente John Kennedy nello sviluppo delle iniziative per i diritti civili, capo del Consiglio Nazionale dei Nativi Americani e presidente del popolo dei Nitsitapi, detti anche Piedi Neri. Quasi a ricordare indirettamente un elemento storicamente accertato, ovvero il fatto che anche i cosiddetti indiani non rappresentassero un unico popolo con medesimo sentire e medesime idee ma un agglomerato di popoli e tribù ognuno, fortunatamente, con una propria identità. Messi in un angolo dalla cultura americana, maltrattati, ghettizzati, dopo essere stati massacrati, ma non necessariamente tutti uniti contro certi simboli.

I nome cancellati dal politicamente corretto nello sport Usa

Ecco allora che fa impressione la recente iniziativa di un’associazione chiamata NAGA, Native American Guardians Association, una ong che – da statuto – vuole diffondere una consapevolezza maggiore sui nativi americani e sulla loro cultura tramite le scuole e grandi eventi sportivi. Nata nel 2017, si è battuta ad esempio per il ripristino di nomi e mascotte eliminate dal politicamente corretto e poche settimane fa ha denunciato i Washington Commanders per il loro rifiuto di sedersi a un tavolo e discutere la questione del nome, nonostante una petizione da oltre 130.000 firme che chiede il ripristino di Redskins, visto che – dicono dalla NAGA – il vecchio logo oltretutto raffigurava una persona reale, Chief White Calf, e che ogni partita era una sorta di omaggio alla sua memoria.

La vicenda è ancora agli inizi e presenta numerosi punti da chiarire: pare infatti che la NAGA riceva contributi indiretti da persone legate alla precedente proprietà dei Redskins, che si era sempre opposta al cambio di nome, ma è anche vero che del suo consiglio direttivo fanno parte nativi americani come Mark Yellowhorse Beasley, Eunice Davidson e Andre Billeaudeaux, e che ad appoggiare i Commanders c’è un gruppo ben più antico e diffuso, il National Congress of American Indians (NCAI), non casualmente finanziato in parte da George Soros: e il nome fa già capire il grado di non-indipendenza di un organismo che era nato, ovviamente, con le migliori attenzioni, ora inglobate nel progetto anti-occidentale dello speculatore di origine ungherese.

Come finirà?

Come finirà? Preso atto che un referendum tra tutti i nativi americani è impraticabile, e visti i tempi potrebbe pure essere manipolato, difficile che prevalga la spinta a far tornare il glorioso nome Redskins: il fanatismo è tale che nel Minnesota persino un liceo fondato da un nativo americano (Na-May-Poke) su un terreno appartenente alla sua tribù, la Warroad High School, potrebbe essere costretto da una legge locale a cambiare il nome delle squadre (Warriors) e la mascotte, un fiero guerriero con lunghi capelli neri e un copricapo di piume che onora nel ricordo il padre di Na-May-Poke, Ay-Ash-A-Wash, sopravvissuto addirittura alla crudeltà della rimozione dello scalpo in una guerra con una tribù rivale.

TJ Oshie, 37enne giocatore dei Washington Capitols di hockey su ghiaccio, nativo americano ed ex studente proprio della Warroad, ha espresso pubblicamente la sua contrarietà agli sforzi di modifica del nome, aggiungendo di essere favorevole ai cambiamenti, in altre circostanze, solo quando ci sia una netta e inequivocabile opposizione da parte dei popoli nativi.

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