Fine processo mai. La barbarie della riforma Bonafede

«L’abolizione della prescrizione è controproducente e dannosa. E colpirà i cittadini anonimi». Intervista a Gian Domenico Caiazza (Unione camere penali)

Articolo tratto dal numero di gennaio 2020 di Tempi. Attenzione, di norma, gli articoli che appaiono sul mensile sono riservati agli abbonati. Per abbonarti, clicca qui.

«Con la riforma della prescrizione si sancisce in modo formale un principio barbarico, cioè che il cittadino debba rimanere in balìa della giustizia penale, sia come imputato che come persona offesa del reato, fino a quando e se lo Stato avrà modo di definire la sua posizione processuale. Il processo in Italia ha già una durata irragionevole, quasi il doppio dei tempi medi europei. Intervenire sulla prescrizione piuttosto che sulle cause della durata dei processi è qualcosa di strabiliante che solo in un paese impazzito può accadere». Intervistato da Tempi, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali italiane (Ucpi), l’organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti, non usa mezzi termini nel denunciare le conseguenze della riforma della prescrizione, entrata in vigore il 1° gennaio 2020. La norma, voluta dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (e approvata da M5s e Lega nel dicembre 2018), prevede l’abolizione di fatto della prescrizione dopo una sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione. In altre parole, una volta superato il primo grado di giudizio, i processi in Italia potranno durare anche 50 anni, costringendo i cittadini a rimanere impigliati nelle maglie della giustizia per tutta la vita.

Il ministro Bonafede ha affermato più volte che la riforma della prescrizione, applicandosi ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore, produrrà i suoi effetti solo tra tre o quattro anni, permettendo quindi di approvare nel frattempo una legge che possa velocizzare i tempi del processo. È così?

Non è così, perché basterà un rito direttissimo e una sentenza emessa per un reato commesso dopo l’entrata in vigore della legge per averne immediata vigenza. Ad ogni modo, mi sembra veramente singolare questo modo di ragionare: si introduce una riforma, se ne riconosco gli effetti deleteri (perché si afferma che bisogna intervenire sui tempi del processo), ma si rassicura sostenendo che gli effetti si vedranno tra diversi anni. Questa cosa non ha nessun senso, se non quello di fissare una bandierina giustizialista: “Abbiamo sconfitto i furbi della prescrizione”. Il diritto è un complesso sofisticato di regole e di princìpi. Se si spazzano via regole e princìpi, i danni sono enormi, a prescindere dalla tempistica.

Secondo le statistiche fornite dal ministero, circa il 75 per cento delle prescrizioni matura prima di una sentenza di primo grado. Di conseguenza la riforma avrà un impatto minimo, solo sul 25 per cento dei procedimenti che finiscono con la prescrizione dei reati.

Questo dimostra l’irrazionalità dell’intervento. I numeri si commentano da soli e soprattutto sbugiardano la vulgata che giustifica la riforma, e cioè che la prescrizione sia lo strumento dei potenti e dei furbi, che si possono permettere i grandi avvocati per guadagnare tempo e salvarsi la pelle. Non c’è un istituto più interclassista e popolare della prescrizione. Se si prendono in considerazione solo quaranta casi, come fanno Marco Travaglio e Peter Gomez nel loro libro La Repubblica degli impuniti, citando ad esempio Carlo De Benedetti, Silvio Berlusconi o altri, e non si dice che ad aver usufruito della prescrizione sono stati centinaia e centinaia di migliaia di cittadini, si stravolge il senso delle cose.

La riforma è in contrasto con il principio costituzionale di ragionevole durata dei processi?

C’è sicuramente un profilo di incostituzionalità. Lo hanno confermato centocinquanta docenti di diritto penale, procedura penale e costituzionale che hanno sottoscritto un nostro appello al capo dello Stato già in sede di promulgazione della legge. Si tratta di un fatto eccezionale, se si considera che l’accademia difficilmente si sbilancia. Il profilo di incostituzionalità fu urlato da coloro che questa materia la studiano e la insegnano. Ma è il paradosso di questo paese: la conoscenza e la competenza sono un demerito e vanno ignorate.

Negli ultimi anni si è assistito a un costante allungamento, per via legislativa, dei termini di prescrizione, tanto che ormai i reati più gravi e di maggiore allarme sociale vanno in prescrizione dopo 15, 20 o persino 50 anni (senza tener conto di quelli imprescrittibili, perché puniti con l’ergastolo). Come è possibile che sia passata l’immagine della prescrizione come strumento in mano ai furbetti?

Questa è una risposta che dovrebbero dare i giornalisti e i responsabili dell’informazione. Circa il 95 per cento delle prescrizioni riguarda reati bagatellari e di scarso allarme sociale, puniti con pene massime di 4, 5 o 6 anni, e quindi con una prescrizione che arriva fino a 7 anni e mezzo. Una volta questa mole di procedimenti, che soffoca le procure e i tribunali, era smaltita con le amnistie. L’amnistia costituiva un modo limpido e democratico per risolvere il problema, perché implicava un’assunzione esplicita di responsabilità politica. Da quando è stata cambiata la norma sull’amnistia, questa funzione è passata alla prescrizione. Il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, al congresso straordinario dell’Ucpi a Taormina ha detto che la prescrizione è il nostro «quantitative easing». È la salvezza, perché ci consente di smaltire i procedimenti basati, lo ripeto, su reati di natura bagatellare. I beneficiari sono i cittadini anonimi, di ogni appartenenza sociale, economica e politica. Quello degli impuniti è un discorso che solo degli analfabeti possono sostenere nei talk show, intervistati senza possibilità di contraddittorio.

Lei è stato l’avvocato di Enzo Tortora nella causa per responsabilità dei magistrati che lo avevano ingiustamente arrestato e condannato. Cosa significa essere coinvolti in una vicenda giudiziaria per anni, se non decenni?

Il protrarsi di una vicenda giudiziaria, già solo per 4 o 5 anni, ha un impatto devastante sulla vita delle persone, perché essere indagati o imputati significa subire conseguenze pesanti sulle possibilità lavorative, sulle proprie relazioni sociali e spesso sulla vita affettiva e familiare. Potrei raccontarle centinaia di storie. Gliene racconto solo una recente, che riguarda un imprenditore del settore alimentare. Da cinque mesi è indagato e posto agli arresti domiciliari. Era il fornitore di circuiti commerciali all’ingrosso molto importanti, ma da quando la notizia dell’indagine è stata resa nota gli sono stati revocati tutti i contratti. E parliamo di una vicenda iniziata solo un anno fa, figuriamoci se questa condizione si dovesse prolungare per 10 o 15 anni.

Negli ultimi mesi avete portato avanti diverse iniziative, tra cui due astensioni dalle udienze e una maratona oratoria a Roma che per giorni ha visto alternarsi centinaia di avvocati da tutta Italia. Quali segnali avete avvertito dal pubblico e dalle istituzioni?

La maratona oratoria è stata straordinaria, anche sotto il profilo della ricaduta mediatica. Abbiamo registrato un’attenzione importante non solo dall’opposizione (tra cui anche la Lega, che però quella legge l’ha votata), ma anche da componenti della maggioranza, come Italia viva. Il Pd ha due anime e una di esse è molto vicina alle nostre posizioni. Siamo certi di aver mosso le acque e per noi la partita rimane aperta anche dopo l’entrata in vigore della riforma.

La riforma Bonafede, oltre che dannosa, è inutile. Resta, però, il problema rappresentato dall’alto numero di procedimenti penali (circa 130 mila) che ogni anno finiscono in prescrizione. Come si dovrebbe intervenire?

Si dovrebbe intervenire riportando il nostro sistema accusatorio alla normalità. Non possiamo avere il 90 per cento dei dibattimenti, non esiste in nessun sistema accusatorio. Negli altri paesi si privilegiano soluzioni negoziali del processo penale, come patteggiamenti o giudizi abbreviati condizionati. Bisognerebbe quindi potenziare la capacità di filtro dell’udienza preliminare, perché non si possono mandare avanti i processi che poi si dimostreranno inutili, come ora è confermato dal 50 per cento delle assoluzioni in primo grado. Poi bisognerebbe potenziare i riti alternativi e depenalizzare. Se si interviene in questo modo, riducendo il numero di procedimenti che finiscono in dibattimento dal 90 al 30 per cento, vedrete come si accorceranno i tempi del processo.

@ErmesAntonucci

Foto Ansa

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