Periferie esistenziali. Viaggio dentro l’anima dei tupurì africani attraverso i nomi dei loro figli: Adulterio, Pidocchio, Cento buoi e Basta così

Tempi comincia il suo reportage a puntate nelle "periferie esistenziali" da una remota regione al confine tra Camerun e Ciad. Dove vive un popolo che "mette tutto in piazza"

Periferie esistenziali. È stato papa Francesco a coniare questa bella espressione. Era la Pentecoste del 2013. Disse che la crisi che stiamo vivendo non consiste in una crisi soltanto economica. «È una crisi dell’uomo: ciò che è in crisi è l’uomo! E ciò che può essere distrutto è l’uomo! Ma l’uomo è immagine di Dio! Per questo è una crisi profonda!». Perciò, concluse, «La Chiesa deve uscire da se stessa… Verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire». Cantava il laico Giorgio Gaber e in un certo senso gli fa eco il papa argentino: «C’è solo la strada/ su cui puoi contare/ la strada è l’unica salvezza./ Perché il giudizio universale non passa per le case/ in casa non si sentono le trombe/ in casa ti allontani dalla vita/ dalla lotta, dal dolore e dalle bombe».
A partire da questo numero, Tempi si mette sulla strada. In viaggio nelle periferie dell’esistenza.

Per incontrare veramente gli altri, ci vuole una vita intera. Anche per donare la propria vita agli altri ci vuole una vita intera. Anzi, due. Padre Silvano Zoccarato del Pime per trentadue anni, fra il 1974 e il 2006, ha evangelizzato i tupurì, un’etnia seminomade di 300 mila anime che vive a cavallo fra il Camerun settentrionale e il Ciad. Poi, settantenne, si è offerto per una presenza di preghiera e convivenza coi musulmani a Touggourt, nel deserto del Sahara algerino. Solo uno come lui poteva mettersi a studiare l’arabo a 70 anni e cambiare completamente ambiente geografico, umano, religioso. Uno che i primi due anni nella savana camerunese li ha vissuti così: «Quando mi stabilii a Guidiguis andai ad abitare presso un cristiano che mi ospitò in una capanna accanto alla sua, anch’essa fatta di terra col tetto di paglia. Non potevo costruirmi una mia capanna perché non avevo ancora avuto dal capo villaggio il permesso di iniziare una missione. Ero solo un ospite e nessuno poteva mandarmi via. Due anni dopo potei costruire la capanna di mia proprietà e vissi il mio inserimento come uno del villaggio. Andavo a procurarmi il cibo e l’acqua, coltivavo un piccolo orto, imparavo la lingua della gente e celebravo la Messa da solo o con qualche cristiano di passaggio».

Però condividere la vita quotidiana non basta per arrivare in fondo all’anima di un uomo, di una comunità, di un popolo. E che cos’è un rapporto umano, se le anime non si sentono? Così a padre Zoccarato – missionario di quelli di una volta, capaci di fondare e dirigere una scuola per i catechisti e contemporaneamente organizzare opere ingegneristiche per migliorare le coltivazioni della comunità e tradurre il lezionario della Messa e altri testi cristiani nella complicatissima lingua locale – viene un’idea: raccogliere i nomi dei tupurì e studiarne l’etimologia. Si era accorto, infatti, del carattere creativo e ipercomunicativo dei nomi di persona: «Il nome tupurì è una creazione spontanea. Chi lo dà non impiega una parola fissata dall’uso per i nomi di persone come si fa nei nostri paesi occidentali».

Incontra un giovane che si chiama Radaywa, letteralmente “Non piangere le mucche”. Bambini piccoli che si chiamano Baywelwa, Jidim o Furi: cioè “Non è un bambino”, “Spazzatura”, “Un pidocchio”. Ragazze con nomi imbarazzanti come Dayawe (“Le vacche sono tornate”) o Dayfulli (“Vacche nella savana”). Chiede, s’informa, approfondisce, e giunge alla conclusione che i nomi di persona contengono l’anima dei tupurì, il loro modo di vedere le cose, i messaggi che vogliono lanciare al mondo a cominciare da parenti e abitanti del villaggio, per finire con le divinità e la morte personificata.

Come per la gran parte dei popoli africani, il matrimonio tupurì richiede che la famiglia dell’aspirante marito paghi la dote alla famiglia della sposa corteggiata, e la moneta corrente nella savana sono le mucche: tante quante ne merita la bellezza della prescelta o l’importanza della sua famiglia. Da qui un nome come “Non piangere le mucche”, che è un commento indirizzato dal neo-padre ai suoi genitori, i quali hanno dovuto privarsi di parte della mandria per fare sposare il figlio. Ora che è nato un figlio maschio, che estenderà la stirpe e le darà lustro, il vostro rimpianto deve finire, dice loro.

Al contrario, per consolarsi del fatto che è nata una femmina anziché un maschio, la quale andrà in sposa a un altro clan e farà figli per esso, il padre impone nomi come “Le vacche sono tornate”, “Vacche nella savana” e molti altri ancora. Infine la nascita, a prescindere dal sesso di coloro che vengono al mondo, è in Africa una circostanza sempre ambivalente, che mescola gioia e paura, perché gli alti tassi di mortalità fanno sì, soprattutto nelle aree remote come il nord del Camerun, che molti neonati non sopravvivano. Ecco allora i nomi che devono ingannare la morte, perché non riconosca la nuova vita e non se la porti via: “pidocchio”, “spazzatura”, “non è un bambino”. Li utilizza soprattutto chi ha già avuto uno o più lutti in famiglia, perdendo il figlio poco dopo la nascita.

Una comicità boccaccesca
Un mondo di sentimenti e di passioni innestati nelle relazioni familiari e sociali si è mostrato agli occhi di padre Silvano, che ha raccolto e catalogato 1.200 nomi e ha pubblicato una parte di essi in un libro edito qualche anno fa: Non piangere le vacche. I nomi dei Tupurì del Camerun e del Ciad (Editrice San Liberale 2005, 59 pagine, 6 euro). Il nome, dunque, è un messaggio che il nuovo papà (molto più raramente la mamma) intende trasmettere. In base al contenuto del messaggio, i nomi possono essere divisi in classi: circostanze della nascita, realtà della morte, riconoscenza, spiriti e sacrifici, sentimenti litigiosi (gelosia, inimicizia, vendetta), realtà del matrimonio, figli maschi e figlie femmine, ricchezza, sentimenti di fierezza, insulti veri e propri e moniti, costituiscono le categorie di massima nelle quali i nomi tupurì possono essere inquadrati. Potremmo anche dividerli fra quelli che fanno sorridere, comici di una comicità involontaria e spesso boccaccesca, e quelli che alludono a realtà drammatiche o tragiche; ma a volte i due registri si mescolano, almeno nella percezione di noi non africani.

Sessantatré nomi dicono che al momento della nascita di una figlia un tupurì pensa alla dote che riceverà quando la darà in moglie a qualcuno, e di questi 39 riguardano le vacche. Gli altri parlano di regali o di soldi, sempre nel contesto della dote: ci sono donne che si chiamano “mille franchi”, “cento buoi”, “cavallo”, “miglio”, “birra”, “noce di cola” (offerte di chi va a casa di qualcuno a chiedere donne in moglie), addirittura “milioni” e “auto”, perché è convinto che con la dote della figlia si comprerà un’automobile. La posizione della donna è di palese subordinazione ed è considerata più uno strumento che una compagna alla stessa altezza dell’uomo.

Ben diverse le espressioni per la nascita di figli maschi: costituiscono una specie di consacrazione della virilità e della promozione sociale del padre. “Radice”, “scure”, “corazza”, “un vero uomo”, “libero”, “leopardo”, “bufalo”, “bastone”, “grande albero”, “non mi sottometto”, “non mi battono”, “vedranno”: sono nomi che non indicano tanto le qualità che il padre augura al figlio, quanto quelle che il padre stesso acquisisce grazie al fatto di essere diventato il genitore di un maschio.

Gli africani amano la vita e vogliono tanti figli per molti motivi, non solo quelli biecamente materialistici indicati dai nomi delle bambine, ma anche alcuni molto nobili, legati alla loro visione del mondo e concezione dell’essere umano. Tuttavia anche per un africano può arrivare il momento di dire “alt” alla progenie. Ecco allora nomi di persona come Kaawe, Jonma’, Tawti, che significano “basta!”, “basta così”, “è finito”, tutti riferiti al fatto che non si desiderano altre gravidanze.

Tutto è messo in piazza
Spesso i nomi parlano della moglie e della qualità del rapporto fra i coniugi così come lo vede il marito (capo incontrastato della famiglia, che può essere anche poligamica). Anche qui c’è da ridere e da piangere, perché il maschio tupurì non intende nascondere nulla, e accanto a nomi che fanno sapere a tutti che la relazione funziona bene (“ti ama”, “l’ho accarezzata”, “è una vera donna”, “la donna lo ama”, “ci siamo trovati subito bene”), ce ne sono molti altri che sono veri e propri insulti diretti alla moglie, che pure ha appena messo al mondo un figlio o una figlia. Appartengono a questa categoria i nomi “non obbedisce”, “non tiene bene la capanna”, “va troppo in giro”, “non la amo più”, “ho perso le vacche” (nel senso che la dote è stata mal spesa per una donna che non la meritava), “la seconda la sorpassa” (cioè la seconda moglie di un poligamo ha già dato più figli di quella che ha appena partorito). Le vicende più intime vengono allo scoperto, la privacy non esiste: “adulterio”, “presa con la forza”, “divorziata”, “ingannata”, “volevo ricondurla da suo padre”, “è rimasta per forza” descrivono condizioni di fatto e azioni per nulla lusinghiere relative alla donna che diventano nomi dei figli che ella ha appena messo al mondo.

Questo mettere in piazza tutto ha una ragione: «Mi spiegarono che, in una società come la loro, niente può e deve restare nascosto. La solidarietà è vissuta anche nel portare insieme tutto ciò che avviene di gioia, sofferenza, proprio come nell’organismo umano. Dire quanto è avvenuto è un modo per liberare gli individui dalle conseguenze che ne derivano come malattie, morte, ed è quindi un modo di riparare la colpa e le offese recate». Nelle società africane, infatti, la comunità ha il primato sull’individuo. Ciò viene espresso nelle parole della filosofia dell’ubuntu (ciò che fa uomo l’uomo): «Io sono perché noi siamo, ed è perché noi siamo che io sono».

Questo ha conseguenze positive e negative. Positive nella misura in cui ogni membro di una comunità può sempre aspettarsi l’aiuto degli altri nelle situazioni di difficoltà; negative nella misura in cui ogni tentativo di distinguersi dal gruppo provoca gelosie e invidie che sfociano in ostilità: la malattia e la morte arrivano come punizioni per chi ha peccato di individualismo o per chi ha violato i tabù religiosi, per chi ha irritato gli spiriti, in particolare quelli dei morti, o per chi è entrato nel mirino della magia nera di uno stregone a causa dei beni che possiede. Una vita immersa nella coscienza dell’appartenenza comunitaria, ma anche una vita piena di paure, di pericoli naturali e soprannaturali da cui è difficile difendersi, di inimicizie.

Ecco perché serviva e serve l’evangelizzazione, e i tupurì sono presi dalla meraviglia quando si annunciano loro le parole di san Paolo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, Nostro Signore».

@RodolfoCasadei

Exit mobile version