Perché un cristiano “deve” fare una scuola?

Il problema della "Emergenza educativa" è più grande del problema della "libertà di educazione", con le inevitabili scaramucce attorno alla cosiddetta autonomia

Chissà cosa ha raccontato al nonno il ragazzino. L’indomani, riaccompagnandolo a scuola, il nonno mi saluta esclamando: «Don Villa, lei dovrebbe fare il ministro della Pubblica istruzione». Rido e poi commento che ho già provato ed è durato solo tre mesi. Alludevo al fatto che quarant’anni fa, prima di arrivare in Friuli, sono stato assunto in qualità di direttore nazionale di un istituto di educazione nel mese di giugno e sono stato licenziato il mese di settembre: giusto il tempo delle presentazioni al consiglio di amministrazione, di sedermi sulla poltrona della direzione sormontata dalla gigantografia del fondatore, di incontrare un giornalista che ha fatto trapelare qualche idea sull’impegno che mi attendeva. Non avevo capito di essere entrato in un organismo nel quale rappresentavo una semplice pedina.

«Un cristiano deve fare una scuola»

Non è cambiato nulla. In questi due anni di pandemia è impietosamente apparso che l’apparato mastodontico dell’istruzione è in realtà un organismo autoreferenziale, bisognoso di dimostrarsi essenziale. Sbaglia l’amico che mi chiede se stia alzando bandiera bianca. No, no! Al contrario mi diventa sempre più chiaro che bisogna andare all’attacco, ma senza combattere contro i mulini a vento, bensì arruolati tra le fila del «Dio degli eserciti»!

Il problema della “Emergenza educativa” è più grande del problema della “libertà di educazione”, con le inevitabili scaramucce attorno alla cosiddetta autonomia. Ma io sento che il problema è racchiuso in questa domanda: «Perché un cristiano DEVE fare una scuola?». Mi rispondo così: «Per la semplice ragione che col Battesimo subisce una modifica ontologica, diventa una realtà personale in un popolo di lavoratori con il compito elementare di predicare il Vangelo e cioè di riprodurre, per quanto gli riesca, il metodo e la logica del vivere, esemplarmente dimostrata da Cristo duemila anni fa».

L’esempio di Tarcento

Se gli amici Roberto, Giancarlo, Peppo, Plinio, Matteo, Franco eccetera mi segnalassero che sto sclerando, non scriverò più, ma se uno mi contesta che da una simile “antropologia” non possa derivare una “didattica”, mi deve spiegare perché è stato possibile Tarcento. Tarcento, infatti, è solo la prova che una realtà umanamente piccola come una parrocchia ha in sé il potenziale per coltivare un’ambiziosa avventura come una scuola, ne possiede fattori e condizioni. Tra i fattori è importantissima la sua stabilità giuridica, tra le condizioni quella più importante è la sua naturale consonanza con la familiarità (che è necessaria come l’ossigeno per i piccoli oggi!).

Certo la parrocchia ha bisogno, a sua volta, di essere sostenuta da un entroterra che è il Magistero e qui mi basta rimandare alla magistrale intervista al cardinale Ruini condotta dal direttore di Tempi nel settembre del 2020. Mi piacerebbe essere capace di descrivervi qualche momento. Per esempio, riuscite a immaginare la scuola come la “casa degli insegnanti”? Gli alunni non verrebbero aspettati dal “personale incaricato”, ma da adulti amici (magari di mamma e papà). Oppure come riuscite, essendo loro piccoli oramai diventati incapaci di pensiero, a ricollegarli con la realtà se non li portate con naturalezza a qualche momento di stupore nel silenzio? E, cristiani come siete, non vi può aiutare sapere che «la realtà è Cristo» (Col. 2,17)?

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