Perché tutta l’Italia deve guardare con il fiato sospeso alla vertenza Electrolux

La fabbrica di Porcia (1.100 operai) rischia di chiudere per essere spostata in Polonia. È una prova definitiva per la nostra capacità di non far fuggire gli investitori e salvare il poco lavoro rimasto

C’era una volta l’italianissima lavabiancheria Rex, quella dei manifesti pubblicitari anni Sessanta in cui un’avvenente casalinga poteva permettersi il lusso di una rilassante e prolungata seduta dal parrucchiere per rifarsi la permanente sfogliando una rivista. «Certo! Può prendersi questa libertà», si leggeva sotto l’oblò dell’elettrodomestico stampato in primo piano sul cartellone, «tanto… a casa lei ha la Rex». Quel gioiellino, che negli anni del boom giunse a detenere il 40 per cento del mercato domestico, esiste ancora.

Ma nel frattempo ha perso gran parte del suo appeal oltre che quote di mercato. E mentre la concorrenza si faceva sempre più agguerrita (in testa la statunitense Whirlpool, numero uno mondiale, seguita dalle tedesche Bosch e Miele e dalla coreana Samsung), l’azienda produttrice è stata acquisita insieme con tutto il gruppo Zanussi dagli svedesi di Electrolux. Era il 1984 e almeno – si diceva allora – gli stranieri hanno mantenuto la produzione in Italia.

Oggi però, trent’anni dopo, anche questo rischia di non essere più vero, visto che lo stabilimento di Porcia dove è ancora prodotta la Rex potrebbe essere chiuso e trasferito mille chilometri più a est, a Olawa, Polonia, dove il lavoro costa molto meno che in provincia di Pordenone e produrre lavatrici permetterebbe alla ditta di risparmiare 25 euro al pezzo. Infatti è dagli stabilimenti dell’Est Europa che l’attuale proprietà di Electrolux, la famiglia Wallenberg, dopo aver chiuso il quarto trimestre del 2013 con un rosso di 112 milioni di euro e un calo dell’utile del 72 per cento che comunque rimane positivo a 76 milioni di euro, intende ripartire all’assalto dei mercati Emea (Europa, Medio Oriente e Africa): stando alle analisi del quartier generale di Stoccolma, non è solo la crisi economica dell’Italia e del Vecchio continente a mettere in difficoltà la produzione di Electrolux a Porcia, crollata dai 2,5 milioni di elettrodomestici del 2005 agli 1,1 attuali, bensì il costo della manodopera italiana.

In effetti, nonostante la produttività dello stabilimento sia migliorata, passando – grazie soprattutto ai miracoli dell’automazione – da 60 a 94 lavatrici realizzate in un’ora, il costo della produzione “brucia” comunque l’8 per cento dei ricavi su un prodotto che, vale la pena ricordarlo, è venduto al prezzo medio di 320 euro e su cui il guadagno è di soli 15 euro. Per la precisione, il maggior costo di produzione per una lavatrice, spiega il Sole 24 Ore, è attribuibile per il 60 per cento al costo del lavoro, mentre il restante 40 per cento è da spartire tra il costo delle componenti e i costi variabili e della logistica.

Il disastro contabile
Dunque può ben ripetere Augustin Breda del comitato centrale della Fiom-Cgil che «il mero confronto dei costi di produzione è un approccio ragionieristico», ma la matematica non è un’opinione. E anche se le differenze di costo, come puntualizza il quotidiano di Confindustria, «a prima vista, non sembrano così rilevanti, in realtà se moltiplicate per i 3,5 milioni di macchine prodotte in Italia», cioè considerando anche gli stabilimenti Electrolux a Solaro (lavastoviglie), Susegana (frigoriferi e congelatori) e Forlì (piani cottura), che almeno per ora non rischiano la chiusura, «si trasformano in decine di milioni di maggiori costi e minore margine». Un disastro contabile.

Non sorprende, pertanto, il rigido aut aut imposto mercoledì 29 gennaio dall’azienda al tavolo con le delegazioni sindacali e i rappresentanti del governo, il ministro dell’Economia Zanonato e i presidenti delle quattro regioni interessate da un’eventuale smobilitazione di Electrolux. L’alternativa offerta dagli svedesi ai 1.100 operai di Porcia per non chiudere è un taglio delle retribuzioni nette pari all’8-9 per cento (circa 130 euro mensili su stipendi compresi tra i 1.300 e 1.700 euro) e una riduzione del 20 per cento del trattamento complessivo, considerando lo stop ai premi, la diminuzione delle ore lavorate da 8 a 6 e una maggiore flessibilità nei turni, festività comprese. Un tipo di soluzione a cui si guarda con interesse non soltanto per la vicenda Electrolux e per il Friuli, dove tra l’altro, sempre in provincia di Pordenone, a Orcenico, ha annunciato la chiusura un altro storico stabilimento del bianco come l’Ideal Standard (500 operai, senza considerare l’indotto), ma anche per «altre zone d’Italia, soprattutto da parte delle multinazionali», scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera. E l’«epicentro di questa riflessione – spiega sempre Di Vico suscitando un certo timore tra economisti, imprenditori e addetti ai lavori – pare essere la Brianza, che ospita importanti aziende straniere».

A Pordenone, dove per di più anche l’edile e il legno-arredo sono in crisi da tempo, si sta giocando insomma una partita che riguarda tutto il paese, a partire dalla motrice del Nord. Ciononostante la proposta di Electrolux ha ricevuto la pressoché immediata bocciatura da parte delle rappresentanze sindacali unite, Fim-Cisl, Uilm e Cgil-Fiom. Soprattutto perché, come spiega a Tempi Anna Trovò, segretario nazionale Fim-Cisl, presente al tavolo con il governo e i vertici dell’azienda, Electrolux non ha offerto né «garanzie circa il mantenimento della fabbrica» a Porcia né tracce di un possibile «piano industriale alternativo». Se la famiglia Wallenberg avesse voluto davvero imbastire una trattativa, avrebbe dovuto «mantenere integre le prospettive di occupazione» sul territorio, insiste la sindacalista.

Il piano di Unindustria Pordenone
L’azienda, però, non sembra intenzionata ad assicurare la propria permanenza a Porcia senza prima avere ottenuto garanzie dal governo circa un intervento di sensibile riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Difficile che questo possa avvenire, tanto meno nel breve periodo. Verosimilmente, comunque, non sarà presa alcuna decisione definitiva in merito al destino dello stabilimento Electrolux di Porcia prima del 17 febbraio, data in cui il governo Letta (che finora non è andato oltre un generico impegno per «non alzare bandiera bianca») incontrerà la famiglia Wallenberg per discutere le condizioni. Fino ad allora le speranze dei lavoratori friuliani e dell’esecutivo resteranno aggrappate a ogni spiraglio concesso dall’azienda, in primis al suo asserito «impegno a rimanere in Italia con il più elevato grado possibile e sostenibile di occupazione e di attività».

Nel frattempo, l’unica proposta pervenuta alle parti oltre a quella di Electrolux è il piano di Unindustria Pordenone, in un documento redatto tra gli altri dall’imprenditore ed ex presidente della Regione Riccardo Illy, da Luigi Campello, già dirigente di Zanussi e poi direttore di Electrolux Italia dal 2005 al 2012, e dall’ex ministro del Lavoro Tiziano Treu. La proposta prende le mosse dalla constatazione che la crisi del paese è «sistemica», e mira a trovare una via d’uscita che permetta sia di gestire l’emergenza Electrolux sia di restituire competitività a tutto il territorio, rendendolo di nuovo attraente per gli investitori pubblici e privati. «Il caso di Porcia – spiega a Tempi proprio l’ex ministro Treu – è emblematico delle difficoltà che sta attraversando la nostra industria, che, a eccezione di quel 20-25 per cento di imprenditori che possono fare affidamento sui successi dell’export, non cresce da anni». E al netto della crisi, le responsabilità di questa impasse, secondo Treu, non sono attribuibili esclusivamente alla gestione pubblica, rea di non aver investito sufficientemente sul territorio o di non aver abbattuto il costo del lavoro, ma anche a una classe imprenditoriale che non sempre ha saputo investire e innovare.

Per questo la proposta di Unindustria suggerisce alcune linee di intervento volte a realizzare progressivamente una riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) pari addirittura al 20 per cento. Secondo Treu è il Clup, infatti, «il vero elemento che determina la scarsa competitività del paese su scala globale», non il semplice costo del lavoro. Gli ambiti su cui intervenire secondo i saggi di Unindustria sono: il costo del lavoro, la flessibilità degli orari, il ricorso agli ammortizzatori sociali, le pratiche virtuose di welfare aziendale sul modello introdotto da Luxottica, di formazione continua dei dipendenti e la partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali in azienda. Alla politica, poi, aggiunge Campello, spetterebbe nel tempo ridurre gli ulteriori elementi di scarsa competitività del paese, a partire da «uno spread elevato che si traduce in interessi più salati per le aziende, un costo dell’energia maggiore che in Francia e in Germania, un fisco che oltre ad essere salato è imprevedibile e non dà mai certezze a motivo dei continui cambiamenti di legge, una burocrazia che ogni anno costa alle imprese 31 miliardi di euro. Senza considerare che gli investimenti governativi in innovazione sono pari a 1/5 di quelli della Francia».

Solo una strategia congiunta politica-impresa-lavoratori permetterebbe secondo Unindustria di gestire l’emergenza e abbattere i costi di produzione, come chiede Electrolux, senza però assottigliare dolorosamente la busta paga dei lavoratori. È l’unica strada che permette di superare la crisi senza scaricarne il costo esclusivamente sulle spalle dei più deboli. E magari rendendo il paese più attrattivo per gli investimenti.

Il precedente Whirlpool-Lombardia
E che la via della cooperazione tra i diversi soggetti in campo, sia pubblici sia privati, per una soluzione condivisa all’insegna del bene comune sia davvero l’unica percorribile lo dimostra anche, sia pure a uno stadio ancora embrionale, proprio il caso della rivale di Electrolux, l’americana Whirlpool, che dopo aver chiuso lo stabilimento a Trento e avere annunciato l’imminente chiusura di quello di Norrkoeping in Svezia, è intenzionata a spostare la produzione di elettrodomestici da incasso nello stabilimento di Cassinetta di Biandronno, in provincia di Varese. Qui la società statunitense ha deciso di investire 250 milioni di euro in quattro anni per farne l’hub europeo e la porta verso i paesi Emea, oltre che un vero e proprio centro di progettazione e design.

Ma come è possibile che un territorio a soli 400 chilometri di distanza da Pordenone, nel medesimo paese che Electrolux vuole abbandonare, sia ancora così magnetico per i capitali a stelle e strisce? Certamente pesano la volontà pregressa di investire da parte di Whirlpool e la maggior redditività degli elettrodomestici da incasso rispetto alle lavatrici. Tuttavia anche il contesto operativo ha un peso non indifferente in questo caso. E il contesto varesino è quello di un tessuto produttivo ancora ricco – al pari di Porcia – di esperienze e competenze accumulate negli anni che difficilmente si possono già trovare in Polonia, ma soprattutto dove le istituzioni hanno deciso di impegnarsi per ripristinare la competitività.

Whirlpool e Regione Lombardia, infatti, hanno firmato lo scorso ottobre un protocollo d’intesa che ha di fatto anticipato l’introduzione degli “Accordi di competitività”, lo strumento cardine del Progetto di legge sulla libertà di impresa che la Regione sta ultimando in questi giorni e che ha l’obiettivo, come spiega l’assessore alle Attività produttive, ricerca e innovazione Mario Melazzini, di «ridurre i costi per le imprese, introducendo anche sgravi fiscali, rilanciare l’attrattività del territorio, introdurre una semplificazione della leva urbanistica per le aree dismesse, e anche ottenere una maggiore efficienza della pubblica amministrazione». Oltre a «facilitazioni per l’accesso al credito e semplificazione per l’avvio delle imprese con la “Comunicazione unica”, una sorta di autocertificazione che comporterà minori costi per la burocrazia». Bisogna solo sperare che anche a Porcia la politica sappia conquistarsi altrettanta fiducia da parte dell’impresa.

@rigaz1

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