PayPal annuncia e si rimangia una tassa sul pensiero

Dopo aver chiuso gli account dei nemici del woke, la big tech pubblica una policy che l'autorizza a un prelievo coatto di 2.500 dollari dai conti di chi diffonde “odio” o “disinformazione. Una «follia» che le costa caro

«È stato un errore, ci scusiamo»: ora PayPal è stata costretta a una frettolosa quanto imbarazzante marcia indietro, ma perfino l’ex presidente di PayPal David Marcus non riusciva a credere a quanto la big tech aveva avuto il coraggio di pubblicare: «È difficile per me criticare apertamente una compagnia che ho amato e a cui ho dato tanto. Ma le nuove politiche di PayPal vanno contro qualsiasi cosa in cui credo. Una società privata ora può decidere di prendere i tuoi soldi se dici qualcosa in disaccordo con la loro opinione. Follia».

PayPal e la multa ai dissidenti del woke

Il riferimento è alla revisione della Acceptable User Policy (Aup) pubblicata pochi giorni fa dall’azienda che gestisce i trasferimenti online di denaro: a far data dal 3 novembre – questo il senso della nuova policy – chiunque fosse stato giudicato dall’azienda “colpevole” di diffondere disinformazione o di incitare all’odio, sarebbe stato punito con una ammenda pari a 2.500 dollari. Direttamente addebitati sul conto PayPal.

In pratica l’aggiornamento autorizzava l’azienda a prelevare una notevole somma di denaro a chiunque risultasse a suo insindacabile giudizio colpevole non solo di veicolare messaggi odiosi e intolleranti ma, nello specifico, di prendere di mira “gruppi protetti” o “individui o gruppi dalle caratteristiche protette”, quali razza, religione, genere o identità di genere e orientamento sessuale. Lo scrive il National Review al quale PayPal ha inviato una accorata dichiarazione: la nuova policy è uscita «per errore», «PayPal non sta multando le persone per disinformazione», «II nostro team stanno lavorando per correggere», «Siamo spiacenti per la confusione che ciò ha causato».

«Un errore», ma la toppa è peggio del buco

La retromarcia arriva dopo la valanga di critiche e reazioni scatenate dal tweet di Marcus seguito a ruota dall’immancabile Elon Musk: «Follia», scrive l’ex numero uno dei PayPal, «sono d’accordo», ha commentato il fondatore di Tesla, finalmente “costretto” a comprare Twitter, mentre #DeletePayPal era diventato di tendenza. La toppa è peggio del buco: Brendan Carr, commissario della Federal Communications Commission, si è chiesto sarcasticamente quale azienda non pubblicherebbe un documento di sette pagine per dare conto di multe e prelievi coatti per poi dire che si è trattato di un incidente, Brendan O’Neill ha denunciato su Spiked la «tirrania tecnologica fuori controllo» di PayPal: «La policy è stata pubblicata. Chiaramente ne hai discusso. Chiaramente hai pensato davvero molto seriamente di prendere soldi dai wrongthinkers per punire la loro moralità inquinata. Possiamo concederti il ​​beneficio del dubbio e accettare che la tua idea sia stata pubblicata per “errore”, ma ciò non toglie il fatto che hai avuto l’idea, che hai preso in considerazione l’idea di sottrarre denaro ai criminali del pensiero».

Le big tech e la censura progressista

L’idea per altro non è certo nuova alle latitudini di PayPal, e nemmeno delle big tech della Silicon Valley: vi avevamo raccontato qui come e perché, poche settimane fa, PayPal ha chiuso i conti dell’editorialista Toby Young, della Free Speech Union, del Daily Sceptic, di Colin Wright, finiti nella “no-buy list” dell’azienda a causa del proprio “orientamento ideologico”. Il loro peccato? Battersi contro cancel culture e dogmi woke, in particolare dire la loro su questioni su cui non è consentito dissentire: il sesso come costrutto sociale, le restrizioni da Covid, l’apocalisse climatica. La pena? Vedere inasprita la perdita del diritto di parola con l’interdizione dall’attività economica online.

Al fenomeno illiberale del debanking si sommano le recenti pressioni sui giganti della Silicon Valley per censurare o ridimensionare contenuti non allineati in tema di cambiamenti climatico denunciate dal Wall Street Journal, «È un brutto segno», osserva il quotidiano americano, «quando in un dibattito politico una parte chiede di togliere i microfoni all’altra, e la censura tecnologica in questi tempi è quasi uniformemente progressista».

La tassa sul pensiero costa caro a PayPal

Alle latitudini di PayPal alla disinformazione si aggiunge lo stigma dell’incitamento all’odio: criticare il culto del transgenderismo o il fondamentalismo islamico si chiama transfobia o islamofobia, come abbondantemente dimostrato dalla chiusura dei conti della Free Speech Union e di UsForThem, «quindi difendere la libertà di parola è una forma di “incitamento all’odio”? Mettere in discussione il lockdown e il suo impatto devastante sui giovani è “disinformazione”?», denuncia O’Neill.

Ma soprattutto, chi sarebbe deputato a stabilire cosa è disinformazione e cosa odio, le big tech della California? L’idea di PayPal non è nuova, anche se pubblicata per “errore”: aggiornare la censura con una “tassa sul reato di parola”. Una tassa sul peccato. Quando Toby Young ha pubblicato sul Daily Sceptic una guida alla chiusura del conto PayPal, un lettore ha scritto alla redazione che era al momento impossibile: «Siamo spiacenti, non siamo in grado di elaborare la tua richiesta». Nel frattempo le azioni di PayPal calavano del 6 per cento, pari a cinque miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato.

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