Morresi: «Il Nobel a Yamanaka è la prova che si può fare scienza senza distruggere embrioni»

«Questi studi sono la dimostrazione che quando la scienza lavora correttamente non si pongono problemi etici». Così la vede Assuntina Morresi: «Osservare con onestà la realtà e prenderne atto è cosa da grandi scienziati»

«Non è così comune che una scoperta sia premiata con un Nobel dopo ben 5 anni». Sta anche qui l’eccezionalità del riconoscimento che ieri è stato assegnato al ricercatore britannico John Gurdon e al collega giapponese Shinya Yamanaka per gli studi sulle cellule IPS. Ricerche che non sfruttano in maniera indiscriminata gli embrioni come tanti laboratori fanno, ma si basano su cellule già sviluppate, e che ieri l’Accademia di Stoccolma ha voluto premiare con il Nobel per la medicina. Sull’importanza di questo riconoscimento abbiamo voluto intervistare Assuntina Morresi, professoressa associata di Chimica Fisica all’Università di Perugia e collaboratrice di varie testate. Che in un editoriale su Avvenire di stamane ha messo bene in luce che importanza ha per tutta la scienza questo premio.

Professoressa, ci aiuti a capire meglio il valore degli studi sulle cellule IPS di Yamanaka.
Innanzitutto gli studi di Yamanaka sviluppano e continuano quelli dell’altro scienziato premiato, John Gurdon, che nel ’62, anno in cui il giapponese nasceva, aveva fatto alcune scoperte. Partiva da un presupposto, cioè che le cellule conservano una certa plasticità: anche dopo lo sviluppo era possibile cambiarne lo scopo, facendole diventare cellule che si comportano diversamente, ad esempio da cellule della pelle a cellule del sistema nervoso. Gurdon, facendo esperimenti sulle rane, mise a punto una tecnica di clonazione: aveva preso una cellula matura già specializzata e, facendola interagire con un gamete, l’aveva fatta tornare allo stadio iniziale. La cosa avveniva però grazie ad un embrione clonato: era il principio grazie al quale sarebbe poi nata la pecora Dolly nel 1997, cioè la clonazione per trasferimento nucleare. Ma era una tecnica fallimentare: infatti sui mammiferi ha funzionato poco e non ha mai permesso di clonare embrioni umani fino a produrne cellule staminali.

Perché interessano le staminali?
È l’idea della medicina rigenerativa: se abbiamo una malattia, anziché curarla sostituiamo le parti malate. Si fa con gli organi, ad esempio. Così si vuole arrivare a creare una banca di cellule sane di riserva per sostituire quelle malate. Si pensava questo si potesse fare con la clonazione, ma non funzionava. Allora è stato importante Yamanaka: lui era ortopedico e, per caso, aveva visto degli embrioni nel microscopio di un amico. Vedendoli si è interessato al problema. Ha lavorato come Gurdon, cercando però una strada alternativa, e dopo vari esperimenti si è concentrato sui topi. Nel 2007 è uscita la sua pubblicazione: da cellule adulte di topo era riuscito a tornare indietro fino a trovare cellule bambine, quasi simili a queste embrionali, cioè appunto le IPS (cellule pluripotenti indotte), e da queste è riuscito a rigenerare un topo. Già la clonazione terapeutica non aveva dato risultati nonostante la grande quantità di soldi investiti, così in questi 5 anni la gran parte di laboratori hanno iniziato a lavorare sulle IPS.

È un bel giorno per la scienza, titolava oggi il suo editoriale su Avvenire. Perché?
Si è dimostrato che quando la scienza lavora correttamente i problemi etici neanche si pongono. Yamanaka è stato corretto intellettualmente, si è reso conto che l’embrione umano era qualcosa di molto simile a sé, e non era giusto distruggerlo per la ricerca. Lui, che non è cattolico, ha cercato strade alternative seguendo una prassi normale, che in tanti usano, anche per i farmaci: cioè fare sperimentazioni prima sugli animali e poi sugli uomini. Ha semplicemente fatto questo; dico semplicemente perché dovrebbe sempre essere così, invece in tanta ricerca sulle staminali embrionali si è passato a distruggere embrioni quando c’era già l’evidenza, fin dalla nascita della pecora Dolly, di vari problemi per far nascere gli animali. Quindi è un bel giorno perché uno scienziato serio e corretto non ha bisogno di richiamare a sé i principi della fede per giustificare le sue scelte, ma è un bel giorno perché la scienza vera, quella fatta dalle persone, riconosce la dignità degli esseri umani.

Fa specie leggere di questa «altra strada» di cui parlava Yamanaka al New York Times, e di come, nel preferire non operare sugli embrioni, in fondo sia bastata al giapponese la semplice osservazione: «Quando ho visto l’embrione, mi sono reso conto all’improvviso che c’era solo una piccola differenza fra lui e mia figlia».
E pensare che quell’intervista l’ha rilasciata al New York Times, un tempio liberal! Questo fatto ha da insegnare che la scienza deve rispettare e sempre seguire la sua tradizione. La tradizione dei grandi scienziati è quella di osservare con onestà intellettuale la realtà, e di prendere atto onestamente dei fatti, senza vederci quello che uno vorrebbe vederci, ma traendo le conclusioni di quello che la realtà sperimentale e logica pone. Inoltre, colpisce il coraggio di osare di questo scienziato: è giovanissimo, ha solo cinquant’anni e la sua scoperta risale a 6 anni fa. Lui questa strada l’ha cercata: le vie della scienza sono infinite, così come però anche la creatività umana.

Perché tanta fatica da parte della scienza a capire quel laicissimo “principio di precauzione” verso gli embrioni?
Innanzitutto questa fatica non è di tutta la scienza, altrimenti non avremmo esempi come Yamanaka. Due sono i motivi principali: uno economico e uno ideologico. Il primo è chiaro: la medicina rigenerativa è un grande obbiettivo per tutta l’umanità, quindi i soldi che sono stati investiti hanno indirizzato tutti verso la strada che sembrava più facile. Ma che in realtà non lo era. Lo diceva anche Loi, lo scienziato che aveva clonato un muflone: è un miracolo che sia nato, scriveva, questa tecnica non è efficace. Nonostante questo, essendoci grande quantità di embrioni umani dovuti alla fecondazione in vitro, si pensava che questa strada fosse quella più semplice. A questo poi si è aggiunta una posizione ideologica, quella di chi dice: io posso fare tutto quello che voglio, se una cosa la posso fare, la voglio fare. Questa però non è scienza, ma una cosa da apprendisti stregoni. Io ricordo sempre che il consenso informato, di cui tutti ora parlano, è nato proprio perché si voleva evitare il ripetersi dell’orrore dei campi di sterminio. È chiaro che quegli esperimenti avessero dato tante informazioni, però si disse: mai più una persona può essere usata come un mezzo per ottenere altro. Ecco, nonostante la terribile lezione della Seconda Guerra Mondiale, il tentativo di dire «gioco a fare Dio» rinasce qua e là. Molto spesso quindi s’intrecciano queste doppie motivazioni, economiche e ideologiche: a noi sta riconoscere invece i tentativi che vanno controcorrente, come quello di Yamanaka.

@LeleMichela

Exit mobile version