Dalla gioventù bruciata al ritorno alla fede. Intervista a John Waters, il Meeting in persona

Il columnist dell'Irish Times e la scoperta che solo Cristo libera la ragione dal bunker in cui la rinchiude la modernità. A Rimini sarà lui a spiegare l'"emergenza uomo"

C’è una parola che torna con frequenza nel vocabolario di John Waters. Parla del suo passato, del suo lavoro da giornalista ed emerge continuamente quel “bunker” di cui parlò papa Benedetto XVI nel discorso al Bundestag nel settembre 2011, un «edificio di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli». Per Ratzinger era la descrizione perfetta del mondo costruito dalla visione positivista della ragione in cui l’uomo basta a se stesso. «Ma noi, io, sono relazione. Sempre». Ne è certo il columnist dell’Irish Times: si gioca tutta qui l’emergenza uomo che dà il titolo al Meeting 2013 e che sarà proprio Waters a spiegare alla platea riminese martedì 20 agosto.

Le sue vicende biografiche sono conosciute, ancor di più dopo lo scorso 18 maggio, quando John ha raccontato della sua conversione davanti a papa Francesco e alle migliaia di persone raccolte in piazza San Pietro per la Giornata dei Movimenti. L’infanzia nell’Irlanda rurale, la gioventù trascorsa in una contea demograficamente vecchia, il progressivo interesse per le distrazioni che dalla società globale arrivavano anche là, nell’ovest dell’isola verde, per catalizzare le illusioni di tanti giovani in rotta col clima ingessato della propria terra. Era la musica pop che proveniva dall’Inghilterra, era il rock che portava seduzioni irresistibili. La fede appresa in famiglia era sincera per John, ma dall’altra parte c’era l’offerta allettante di una libertà inedita: prendere o lasciare.

Quelle novità lo rapiscono insieme al vizio del bere. In poco tempo ciò che doveva “liberarlo” lo costringe nella più asfissiante delle prigioni: l’alcolismo. «È sempre il bunker che ci ingabbia: siamo convinti di un’immagine di noi che è falsa. Non siamo soddisfatti di nulla, e la risposta che ci viene data è “bevi di più, mangia di più, prendi più droga… così sarai più felice”». Ma, come ha raccontato a Roma, quei fraintendimenti non sono stati la sua morte: in fondo alle sofferenze ha avuto l’occasione di incontrare altri compagni come lui, messi in ginocchio dall’alcol, e, anche attraverso il loro aiuto, cominciare il suo viaggio di ritorno verso il cristianesimo.

Oggi, sull’Irish Times, ogni venerdì commenta ciò che succede dalle parti di Dublino. «E credetemi – spiega a Tempi – l’Irlanda sta diventando il paese più bunkerizzato di tutti». Da una parte c’è la crisi della Chiesa e di una fede sempre più intesa in maniera moralistica, dall’altra le spinte di una società ormai allergica all’idea di accettare l’esistenza di una dipendenza da Dio. Uno scampolo di questo clima è emerso nel recente dibattito sulla legge per l’aborto: in pochi mesi si è passati da una legge che accettava la pratica solo in situazioni rare a un testo che legalizza l’interruzione di gravidanza nel caso in cui vi sia in pericolo la vita della donna, considerando in questa casistica anche il rischio di suicidio. A pesare sull’accelerazione della legge è stata la vicenda di Savita Halappanavar, giovane indiana morta all’ospedale di Galway per un’infezione al sangue dopo che aveva chiesto di interrompere la gravidanza alla diciassettesima settimana. «Il dibattito – osserva Waters – è stato completamente guidato dall’emotività per il modo con cui era stata trattata la giovane».

Poca considerazione, dunque, ai dati scientifici, secondo cui l’Irlanda è uno dei posti più sicuri per partorire, scarsa attenzione ai reali limiti della legge pre-esistente, quasi nulle le riflessioni sul rischio che la nuova normativa porti ad un aborto “on demand”. Si è invece discusso molto della frase detta al marito di Savita da un’ostetrica, secondo cui in Irlanda non si può abortire «perché siamo un paese cattolico». Non interessò ai giornali scoprire che a parlare così fosse una persona per nulla coinvolta nella vicenda di Savita. «I politici hanno dato voce solo a posizioni superficiali o ideologiche, se non emotive. Così però cambia la prospettiva con cui guardare all’aborto, anche perché non si riesce a dare alcuna rappresentanza al nascituro: nessuno parla delle sue possibili sofferenze, della possibilità che viva. Il clima culturale non lo permette». Il dramma, prosegue Waters, è che tutto il dibattito si è radicato sull’idea che la società irlandese è vecchia e conservatrice e ha un disperato bisogno di “progresso”. «Due settimane fa ero in radio, e con due giornaliste si parlava della scelta di Lucinda Creighton, il ministro che si è schierato contro la proposta di legge e, in seguito, è stata costretta a dimettersi. Continuavano a definire il suo pensiero “conservatore”: ma questo modo di parlare dimentica che chi si oppone all’aborto lo fa perché lo crede un omicidio. Beh, come si può definire “conservatore” l’opporsi all’uccisione di un bambino?». Un dibattito impazzito, che come vera novità ha portato alla possibilità di abortire anche quando la donna rischia la vita minacciando il suicidio. «Ma quest’ultima norma non avrebbe affatto salvato Savita», osserva Waters, tra il triste e il beffardo.

«L’idea più diffusa è ormai che sono solo gli stupidi cattolici a non volere questa legge, perché sono ignoranti e non hanno alcun rispetto per la donna». Ma il problema delle immagini parziali e di una ragione “bunkerizzata” non risparmia il fronte pro-life. «L’aborto è una faccenda seria ed urgente, ma per i cattolici irlandesi è diventata la sola questione». Fede e politica si uniscono solo davanti a questo tema in Irlanda. In più la difesa della vita si è arroccata solo sul fatto che è sbagliato uccidere vite umane, senza però indagare fino in fondo dove sta la sacralità di ogni essere umano: «Il fatto è che chi crede ha già scelto che il cattolicesimo è qualcosa di difficile da comprendere del tutto, e così preferisce solo proporlo in una veste moralistica: ci si scorda così del fatto di Cristo e si va diretti alle conseguenze, con domande che però sono difficili da affrontare se non si riesce a coglierne l’origine».

Fa riflettere leggere in un articolo di Waters una citazione di Fintan O’Toole, «l’“arcivescovo” del giornalismo liberal irlandese. Un anno fa scrisse un pezzo provocatorio verso i pro-life. Li sfidava a prendere più sul serio quanto dicevano: “Se davvero credono che il feto sia una persona vera, come Lady Gaga o il Papa, allora non si muovono così seriamente, il loro impegno è fin troppo moderato. Negli ultimi 10 anni sono state cancellate le vite di 50 mila persone, cioè la popolazione di Limerick: la loro protesta però è sempre stata troppo leggera”». Ma quando qualcuno prova a mostrare immagini di feti in tv viene subito stigmatizzato: «Non puoi farlo, ti zittiscono. E se dici che c’è una censura ti prendono per matto».

Come aprire le finestre di un bunker in cui l’Irlanda sembra scivolare sempre più velocemente? Scoprirlo è la sfida di ogni giorno per John, come giornalista e come uomo. «È qui la crisi dell’uomo moderno: sta dentro al bunker ma fatica a riconoscerlo. Dobbiamo però sapere che noi siamo parte anche di un altro luogo, la realtà totale, che più corrisponde a noi. Siamo convinti che il bunker sia la vera realtà, ma in esso non troviamo molte cose di cui abbiamo bisogno come esseri umani. Il lessico dei quotidiani è proprio quello di un bunker. Noi giornalisti dobbiamo provare a rompere questa crosta. Ad esempio, la parola “desiderio”: com’è possibile utilizzarla in un articolo di politica o di economia?». Suonerà strana, ma è di fatto ciò che muove ogni dinamica umana. «Ecco, ad usarla in un contesto simile diventa uno strumento sovversivo. E così magari capita che un lettore sia allertato in qualche modo dalla stranezza di quella parola in quel contesto, ci veda un modo diverso di pensare e dica: “C’è qualcuno che ha capito la stessa cosa che io avevo intuito”».

Sta qui tutta la differenza: un nuovo modo di guardare a sé, alle proprie domande e ai propri bisogni. È quanto Waters ha appreso dopo la riscoperta della fede: «Noi abbiamo imparato a dare un nome ad ogni cosa, e siamo convinti che quindi ogni cosa parta dalla nostra iniziativa. Ma c’è sempre un qualcosa di misterioso che non riusciamo a decifrare, a nominare. È quello che dice anche Bob Dylan: “Deep down, nobody’s got a name”. Al fondo di tutto, anche di me, c’è un Mistero». «L’istinto che il mondo ti detta – prosegue – è che la realtà sia qualcosa da ignorare: ce l’hai davanti tutti i giorni. Ma a cambiare prospettiva ti accorgi che ogni circostanza non è casuale, ma una proposta per te. La scorsa settimana stavo scrivendo il mio articolo per l’Irish Times. Di solito ho la deadline di giovedì, e inizio a pensare al soggetto martedì». Tanti fogli intorno al computer, le idee che s’inseguono nella testa. «Poi mi è capitato sotto mano un articolo su Jim Walsh: è un politico irlandese». Aveva descritto al Senato l’aborto in toni molto duri, in tanti si erano indignati per le parole che aveva usato. «Ho deciso che avrei seguito quella nuova idea: c’era qualcosa di irragionevole in tutta quella vicenda, sentivo il bisogno di metterlo in evidenza. Ho seguito ciò che mi veniva offerto in quel momento».

È uno sguardo fresco che osserva da dentro tutto quanto accade nell’Irlanda del nuovo Millennio, ringalluzzita dagli anni di potente crescita economica e seduta sull’ideologia che negli ultimi trent’anni ha spinto il cambiamento da una società rurale ad una urbana, rompendo con fede e storia: «Ma di fatto siamo una nazione di mimi: copiamo tutto dagli altri. È una delle circostanze drammatiche di tante nazioni che, dopo essere state colonizzate, non riescono più a ritrovarsi. Anche questa idea dell’inurbamento è copiata dagli altri, e si scorda della reale essenza dell’Irlanda». Per John, l’antidoto sta proprio fuori dalle grandi metropoli: da Dublino torna spesso nelle campagne dell’ovest, dalle parti di Castlerea o più a nord verso la costa di Sligo, luoghi di origine della sua famiglia. «La città è una cosa splendida, ma ha caratteristiche molto vicine a quelle di un bunker. Ti mostra ogni cosa, dove andare, le luci… Ogni momento ti offre il significato della realtà. In campagna questo non c’è, sei solo col panorama, l’aria e il cielo. Io amo tornare da queste parti per camminare ed entrare in contatto col Mistero. Le strade della città possono convincerti che sei parte di qualcosa di insignificante: sei un altro consumatore, un altro elettore… Mentre la natura ti aiuta a capire che sei parte di un disegno misterioso. Credo non sia casuale che Gesù sia andato 40 giorni proprio nel deserto». Appuntamento quindi al Meeting, evento dove John torna da anni con grande piacere: «Mi piace il Meeting perché demolisce l’idea che la religione sia qualcosa di separato dal resto della vita. Quando torno in Irlanda non parlo mai del Meeting come di un evento religioso, ma dico sempre che è una settimana di scienze, arte, musica, politica, storia, letteratura… tutto. Ma con al centro Dio».

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