Medvedev è credibile quanto il nostro Talleyrand alle vongole, Luigi Di Maio

Dmitry Medvedev con Vladimir Putin, Mosca, 26 dicembre 2019 (Foto Ansa)

Su Formiche Luigi Romano scrive: «A poco più di un mese dalle elezioni, il vicepresidente del consiglio di sicurezza nazionale russo Dmitri Medvedev entra – di nuovo – a gamba tesa nella politica italiana. “Alle urne vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi, ma anche chiamarli a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità”, ha scritto su Telegram sottolineando che “i voti degli elettori sono una potente leva di influenza”. Immediata la reazione Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di Impegno Civico, che ha definito “davvero preoccupante l’ingerenza del governo russo nelle elezioni italiane”».

Il povero Enrico Lettino non sa più come impostare la campagna elettorale: l’altro giorno ha sostenuto che se le destre fossero al governo non saprebbero contrastare un fenomeno come l’emergenza Covid-19. Si dimentica che il governo Conte II 5Stelle-Pd dovette essere rapidamente sostituito da quello Draghi con Lega e Forza Italia per i suoi fallimenti proprio nell’intervenire sull’epidemia (do you remember Domenico Arcuri?). Oggi al cosiddetto leader del Pd non resta che tuonare contro l’ingerenza russa. Ma si avventura su un terreno che è innanzi tutto ridicolo: Dmitri Medvedev, già oppositore di Vladimir Putin e oggi disperato ubriacone in cerca di visibilità, è un personaggio credibile quasi quanto il nostro Talleyrand alle vongole, Luigi Di Maio. Se c’è un senso nella mossa di Mosca, oltre a quello ispirato dalla vodka, è mettere in difficoltà antichi interlocutori come Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, ora finiti sotto la rigida disciplina atlantica di Giorgia Meloni. Vi è un tratto di irresponsabilità nell’ispettore Clouseau (Lettino) che Emmanuel Macron ha prestato al Pd, nel fare propaganda su questioni che riguardano gli interessi nazionali, ma vi sono anche risvolti politici che il nostro retorico-propagandistico “giornalismo collettivo” non si perita di esaminare.

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Su Affari italiani Giuseppe Vatinno scrive: «Il capo corrente Guerini, attuale ministro della Difesa per gli affari ordinari, aveva cercato in Direzione di fare la manfrina, indignandosi, contorcendosi, sbattendo (debolmente, per non ammaccarseli) i pugni sul tavolo, parlando di “vigliaccate” nella composizione delle liste che avevano fortemente penalizzato i suoi adorati parlamentari».

Il colpo a Lorenzo Guerini e agli ex renziani nelle liste del Pd nasce non solo dai meschini risentimenti di Lettino contro il politico di Rignano, ma anche da una resa dei conti verso la componente più “atlantica” del Pd, ridimensionata da un (quasi) politico che guarda più a Parigi che a Washington (e a Berlino), e potrebbe in un domani tornare a cercare alleanze con i filo-cinesi dei 5stelle.

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Su Fanpage si riporta questa dichiarazione di Carlo Calenda: «Tutti i riferimenti all’agenda Draghi che Letta faceva all’inizio si sono dissolti. Il centrosinistra ha fatto patti contraddittori. Cinque minuti dopo il voto si alleeranno con i 5Stelle».

Se si considera la centralità di Romano Prodi nel sistema di relazioni di Lettino e il peso che il duo filo 5stelle Francesco Boccia-Michele Emiliano hanno dimostrato nella formazione delle liste del Pd, si deve ammettere che il pur fantozziano botolo pariolino Calenda ha qualche ragione.

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Su Strisciarossa Paolo Soldini scrive: «Ecco, questi sono i compagni di strada europei di Giorgia Meloni. “Conservatori” lo sono senz’altro, ma ci pare che ci siano buoni motivi per chiamarli anche con qualche aggettivo più forte: fascisti, parafascisti, ultrareazionari, razzisti, xenofobi, estremisti di destra? Giudichi chi legge».

Il documentato articolo Soldini racconta dei tanti personaggi poco presentabili che qui e lì partecipano al gruppo dei conservatori europei presieduto da Giorgia Meloni. Come al solito si tratta di un lavoro da bravo giornalista a cui però sfugge in parte rilevante la dinamica degli avvenimenti in corso. Dopo la fine della guerra civile europea che inizia nel 1914 e termina tra l’89 (caduta del Muro di Berlino) e il ’91 (fine dell’Unione sovietica) abbiamo assistito a un generale e inevitabile riposizionamento: politici che sapevano a memoria e in russo l’inno del Komsomol hanno finito per bombardare Belgrado agli ordini di Washington e così via. Se ci si misura solo sul passato, dunque, non si coglie quel che sta maturando nel presente. Chi guarda alla luna e non al proprio dito, comprende come la vera sintonia della Meloni non è con piccoli gruppi di estrema destra ma con conservatori inglesi, polacchi e repubblicani americani che lavorano per un certo tipo di alleanza atlantica che parla anche a Friedrich Merz della Cdu e a Manfred Weber della Csu, così come agli aznariani spagnoli divisi tra partito popolare e Vox. Questo è il vero processo in corso che si confronta con un certo approccio liberal-Lgbt e internazional-idealistico-wilsoniano dei democratici americani e con l’europeismo imperfetto di Spd-Verdi tedeschi nonché della politica francese. Così nel campo dell’analisi. Poi tocca alla politica, che non registra solo i fatti ma anche le volontà/possibilità.

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