Il Macbeth attualizzato della Scala: un gran peccato, anzi tre

Una scena del Macbeth di Verdi diretto da Riccardo Chailly per la regia di Davide Livermore, Milano, Prima della Scala, 7 dicembre 2021 (foto Ansa)

Nell’improbabile ipotesi che io venga eletto presidente della Repubblica, la prima cosa che farò sarà di inviare una lettera riservata al direttore artistico della Filarmonica della Scala per informarlo che parteciperò alle Prime della Scala a Milano soltanto se può garantirmi che le coreografie rispetteranno il libretto dell’opera e che nessuna regia “innovativa” disturberà la fruizione del canto e dell’intreccio narrativo. Se il mio suggerimento non sarà esaudito, ufficialmente addurrò un pretesto per la mia mancata partecipazione all’evento, ma lascerò trapelare la vera motivazione.

La metto giù troppo dura? Posso permettermelo, perché le probabilità che nelle prime settimane dell’anno prossimo io sia eletto a capo dello Stato sono inconsistenti, ma dopo il Macbeth di Verdi diretto da Riccardo Chailly per la regia di Davide Livermore vale la pena riprendere e precisare quanto qui abbiamo già in passato cercato di dire. Le regie che attualizzano le storie raccontate nei libretti delle opere liriche, che sostituiscono i personaggi e i conflitti del testo originale con personaggi e conflitti contemporanei, sono deleterie, perché impoveriscono l’opera anziché arricchirla, perché disarticolano i suoi nessi di senso, perché privano il pubblico della possibilità di entrare in comunione coi grandi del passato.

Il pregiudizio progressista

Trasformare l’eterna tragedia, che si esprime nel Macbeth, della fatale caduta di chi vive e uccide per il potere in un fumettone ad effetti speciali nel quale due monopolisti del futuro prossimo si contendono il potere economico sullo sfondo di atmosfere che ricordano Inception di Christopher Nolan (testualmente citato da Livermore) ma anche la trilogia di Batman dello stesso regista piuttosto che Shakespeare, non significa rendere attuale e comprensibile ciò che Verdi musicò 174 anni fa sulla base del libretto di Francesco Maria Piave che prendeva spunto da ciò che Shakespeare aveva scritto 415 anni fa. Significa rendere inaccessibile la sua unicità al pubblico per soddisfare l’ego narcisista del regista.

Alla base di queste operazioni, lo abbiamo evidenziato in passato, c’è il pregiudizio progressista: il passato va riletto, decostruito e reinterpretato alla luce del presente, perché il presente è più avanzato del passato; perché i contemporanei sono più maturi e progrediti, e lo dimostrano togliendo qualcosa e aggiungendo qualcos’altro alle opere classiche. Le opere classiche sono imperfette, basate su visioni del mondo superate e pervase da canoni estetici troppo rassicuranti, che celebrano la bellezza anche quando narrano drammi e tragedie come Macbeth, e che dunque invitano a conservare la realtà così com’è anziché a trasformarla.

I tre grandi peccati dei registi innovativi

La bellezza è reazionaria perché riconcilia l’uomo con l’esistente; bisogna invece mostrare l’orrore del presente e della sua traiettoria, e per fare questo occorre fare largo alla bruttezza, all’horror e al dark, che alimentano l’angoscia e quindi il desiderio di un cambiamento rivoluzionario. La regia di Livermore si innesta in una tradizione di teatro politico. Dichiarava al Giornale alla vigilia della Prima della Scala:

«Noi non andiamo a teatro per vedere una ricostruzione storica, ma per essere toccati nel vivo del nostro presente. Macbeth […] è teatro politico, che risveglia la coscienza dell’uomo e la scuote con ritmi scanditi e velocità furiosa. È un’arringa che, scrutando i rapporti di forza, esorta i sudditi all’emancipazione».

I grandi peccati dei registi innovativi sono tre. Il primo è di negarci la bellezza per spingerci alla ribellione. Il secondo è di ridurre l’arte a funzione della politica, quando invece le due cose sono agli antipodi; la politica serve le singole persone mirando al bene comune, mentre l’arte fa il contrario: si dedica all’unicità degli esseri umani e delle loro storie in modo che possano essere fruite universalmente, che possano diventare patrimonio comune. Il terzo e il più grave dei peccati di Livermore e degli altri è che ci impediscono di entrare in rapporto con l’autenticità dell’opera, che è in realtà l’unica condizione che permette di rendere attuale ciò che è stato pensato, sentito e realizzato nel passato da Verdi e da Shakespeare.

I classici parlano a tutti

Non è affatto vero che le opere del passato non ci dicono nulla perché la società e i modi di pensare e di vivere sono cambiati troppo nel corso dei secoli. È invece vero quello che ha scritto Italo Calvino:

«Un classico non ha mai finito di dire quello che ha da dire».

I Promessi sposi, la Divina commedia, visti con gli occhi dei registi del teatro d’avanguardia sono quanto di più anacronistico si possa immaginare, testimonianze di un mondo e di un modo di pensare che oggi non hanno cittadinanza. Eppure ogni generazione di lettori trova in queste opere – come nelle opere liriche più sociologicamente datate, come possono essere Il Rigoletto o La Traviata – qualcosa che gli parla, qualcosa di persuasivo e di unico, di profondamente credibile, di misteriosamente attuale.

Il pubblico tradito

Ha scritto dottamente Sara Zurletti, grande musicologa:

«Da sempre, senza sosta e rispetto a qualunque possibile forma d’arte […] la fruizione, e quindi l’interpretazione creativa come quella di un regista, implica il confronto tra l’orizzonte dell’opera e quello del suo destinatario, cioè la messa in relazione di codici e universi diversi. Non sempre il confronto è pacifico: a volte è difficile e richiede la mediazione di tutta la cultura di cui dispone il fruitore; altre volte l’orizzonte in cui l’opera si inscrive è tramontato da un pezzo e va ricostruito accuratamente per decifrarne il senso, magari anche con l’aiuto di apparati filologici […]. In tutti i casi, tuttavia, per capire e apprezzare un’opera d’arte non è necessario che l’opera faccia riferimento diretto ed esplicito al nostro mondo: attivando quello che Umberto Eco chiama l’“Enciclopedia”, cioè il complesso della nostra cultura con tutti i suoi codici e sottocodici, si riesce sempre a calarsi nell’universo di senso dell’opera per come è stata creata, a stabilire un contatto con lei e spesso ad accogliere il tesoro di significato che vi è contenuto. Appunto, però, ci vogliono impegno e cultura: che in questo senso è una parola magica. Presumere invece di fare cultura con una regia d’opera attualizzante, che elimini il lavoro faticoso ma esaltante della mediazione culturale ricontestualizzando la trama in un orizzonte familiare al destinatario – fornendo così falsi appigli per la decifrazione del suo senso –, significa non fare cultura affatto, rinunciare alla “fusione di orizzonti” tra opera e destinatario, ammiccare al pubblico mentre si tradisce la sua legittima attesa di mettersi in contatto con l’autenticità dell’opera».

Il carcere del presente

Ma che cosa c’è di più affascinante e di naturalmente desiderato che potersi identificare con quel che sentiva Verdi, con quel che pensava Shakespeare, con quel che immaginava Dante? Vivere in noi i sentimenti, gli struggimenti, le malinconie, le intuizioni, gli slanci, le estasi dei grandi artisti e dei loro personaggi, e attraverso di loro quelli di tutti gli uomini e tutte le donne del passato? Esperienze che renderebbero più vivo il nostro presente e più ricco di speranza il nostro futuro. Invece i registi innovatori ci condannano al carcere di un presente senza vie di fuga, a correre restando sul posto come chi fatica su di un tapis roulant, ad appiattire sulla contemporaneità le vette di opere consegnate all’eternità.

@RodolfoCasadei

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