Lo “sporco” segreto dell’energia solare

Il calo dei prezzi rende conveniente il fotovoltaico, ma il settore è monopolio della Cina. Che per produrre i pannelli solari utilizza energia derivata dalle ultrainquinanti centrali a carbone

«Dietro alla crescita dell’energia solare negli Stati Uniti, c’è una montagna di carbone cinese». Si intitola così un pezzo del Wall Street Journal che analizza lo “sporco” segreto che si cela dietro alla convenienza del fotovoltaico. Un segreto che rischia di rendere l’energia rinnovabile più grigia che verde.

La Cina ha il monopolio dei pannelli solari

La produzione di energia solare negli ultimi due anni è aumentata del 48% negli Stati Uniti e del 34% nell’Unione Europea. Decine di migliaia di pannelli solari vengono installati ogni anno per inseguire il sogno della decarbonizzazione dell’energia e dell’economia. Il costo dell’energia solare è crollato grazie alla diminuzione del prezzo dei pannelli solari, ma il loro utilizzo in Occidente potrebbe non fare così bene all’ambiente.

Come abbiamo già scritto, la Cina ha il monopolio della produzione del polisilicio (82%), indispensabile alla realizzazione delle celle fotovoltaiche, e dell’intera catena di realizzazione dei pannelli. Secondo Bloomberg New Energy Finance, «almeno il 95 per cento dei pannelli solari presenti sul mercato», anche prodotti in altri paesi, «sono fatti di polisilicio che proviene dal Xinjiang».

L’apporto cruciale delle centrali a carbone

La Cina ha conquistato il mercato mondiale grazie ai suoi prezzi imbattibili. Ma non è soltanto il basso costo del lavoro a fornire al Dragone un’arma vincente per invadere Europa e Stati Uniti con i suoi pannelli solari. Oltre il 40 per cento dei costi operativi di chi produce polisilicio è assorbito dall’energia. E in Cina il costo dell’energia è molto basso grazie a «una distesa di centrali a carbone disseminate in aree scarsamente popolate del Xinjiang e della Mongolia interna, dove si trovano le fabbriche di polisilicio».

Attualmente, «produrre i pannelli solari in Cina crea all’incirca il doppio delle emissioni di diossido di carbonio rispetto alla loro realizzazione in Europa», secondo le stime del professore della Cornell University, Fengqi You. Questo significa che in paesi come Norvegia e Francia, dove la produzione dell’energia non è basata principalmente sui combustibili fossili, «i pannelli solari cinesi non riducono affatto le emissioni». L’energia prodotta, spiega You, «è pulita ma la produzione dei pannelli genera molte emissioni».

Senza carbone, niente fotovoltaico

Tenendo conto che la vita media di un pannello solare è di 30 anni, nel lungo periodo i pannelli solari rappresentano comunque una scelta sostenibile dal punto di vista ambientale. Ma la dipendenza dell’energia solare dal carbone è un problema che anche i governi occidentali stanno cominciando ad affrontare. Il problema, oltre che ambientale, è industriale.

La concorrenza cinese ha costretto a chiudere molte fabbriche americane. Wacker Chemie Ag, il più grande produttore occidentale di polisilicio, paga l’energia che utilizza in Germania quattro volte di più dei concorrenti cinesi. «Se la Cina non avesse accesso al carbone, l’energia solare non sarebbe così economica oggi», spiega Robbie Andrew, ricercatore senior del Center for International Climate Research di Oslo.

Tema cruciale per il Green Deal

Alcuni paesi stanno pensando di seguire la strada francese, che impone per le grandi centrali solari di utilizzare solo pannelli realizzati con basse emissioni di Co2. Ma finché l’intera catena produttiva sarà in mano alla Cina, non sarà facile porre condizioni al Dragone.

Il tema della reale sostenibilità dell’energia solare e della pericolosa dipendenza dalla Cina è cruciale per il successo o il fallimento del Green Deal europeo. Oltre all’inchiesta pubblicata sul numero di giugno di Tempi, anche sul numero di agosto uscirà un servizio sulla «decarbonizzazione infelice» e un’intervista a Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, secondo cui «la decisione di andare in volata sull’ambiente gratifica l’opinione pubblica, ma crea un dislivello competitivo che si aggiunge ai tanti problemi già esistenti».

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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