Lettera a Etty Hillesum. E un arrivederci ai lettori

Il 30 novembre sono 70 anni dalla morte ad Auschwitz di Etty Hillesum, la giovane ebrea olandese che ha lasciato nel suo Diario e nelle Lettere la testimonianza, dall’epicentro del male, di una inaudita speranza. Dopo avere tante volte letto la sua storia, le ho scritto.

Per me sei diventata una sorella più grande, che ha fatto i miei stessi errori, ma poi ha ritrovato la strada; e ora sa, e ora le si domanda consiglio. Sei morta a 29 anni; ma quando sei salita su quel treno gremito, non sembravi avere paura. Hai aperto a caso la Bibbia, si è spalancata su un Salmo: «Il Signore è il mio baluardo». È strano, come una persona morta da tanto tempo possa essere così vicina. Hai percorso il Novecento spinta dalla urgenza bruciante dell’Olocausto, costretta a crescere in fretta. All’inizio del Diario sembri una ragazza degli anni Settanta, disincantata, curiosa, sensuale. Poi, mentre i nazisti occupano Amsterdam, ti innamori di quello strano junghiano che ti insegna che «bisogna avere il coraggio di pronunciare il nome di Dio». E ti apre una strada in cui tu, figlia del popolo ebraico, cammini con istintiva naturalezza.

Cadi in ginocchio una sera, leggendo la Prima Lettera ai Corinzi di Paolo – l’inno alla carità. Di chi sei ora, a chi appartieni? Ma soffia come un uragano la storia, e già ti è imposta la stella gialla. I primi amici cominciano a partire. Ne accompagni uno alla stazione e scrivi: «In una notte come questa bisognerebbe soltanto inginocchiarsi, e pregare». Scopri in te un pozzo profondo, e, dici, «Dio c’è, in quel pozzo. A volte è coperto da sabbia e sassi: allora bisogna di nuovo che lo dissotterri». Non vuoi fuggire, ma condividere il destino del tuo popolo. Nel campo di raccolta di Westerbork lo incontri, quel popolo nel suo nuovo deserto; i vecchi barcollanti e soli, le madri con i loro bambini pallidi in braccio.

E partono sempre nuovi treni per la Polonia, e mai ne torna una lettera, una voce – come se laggiù, fosse il nulla. Lotti con la forza opaca del male che vorrebbe annientarti. «Eppure la vita è splendida», scrivi, cocciuta, da dietro il filo spinato. Tra quella folla atterrita vuoi essere, dici, un tetto per Dio. Un angolo, in cui Lui possa riposare. Cerchi di confortare le donne e i bambini, leggi Rilke nelle baracche dei prigionieri. Ma, vorrei chiederti, dal tempo spensierato dei tuoi amori, che ti è successo, cosa ti ha trasformato? «Mi sento – scrivi – proprio come una grande officina in cui si lavora duramente, si picchia col martello, e sa Dio che cosa». E tutto, dici, «in me attende di essere trasformato».
Auschwitz, muori in due mesi. Del tuo ultimo deserto, non sappiamo niente. Se non che, oggi, sei viva. Tu, la ragazza irrequieta che «non sapeva inginocchiarsi»; e a cui misteriosamente tutto, nell’abisso della storia, è stato insegnato. Come? Da chi? Sei come un sentiero nel fondo di una foresta fitta, chiaro nel buio; e di cui non sai, chi l’abbia tracciato.

Con oggi questa rubrica, che continua ormai da otto anni, si conclude. Marina Corradi ringrazia chi l’ha letta. Tornerà a scrivere su Tempi prossimamente, in una forma diversa.

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