La vacanza del dissidente Havel. In “compagnia” della polizia comunista

«Posso viaggiare liberamente almeno all’interno del mio paese?», si chiese nell’estate del 1985 Václav Havel, il dissidente più sorvegliato dell’Europa centrale. Dopo 4 anni di carcere che gli avevano minato la salute, il successivo ricovero in ospedale per una polmonite e il tempestivo rilascio con la condizionale (il regime comunista non poteva permettersi un “martire del dissenso”), decise che era ora di tirare il fiato e concedersi una vacanza (senza moglie!).

Il viaggio all’interno dell’allora Cecoslovacchia è stato ricostruito dal video Citizen Havel goes on vacation, prodotto nel 2007 dalla Chicago Motion. Vi compaiono il diretto interessato, alcuni suoi amici e conoscenti, e persino il simpatico poliziotto Jiří Dvořák che nell’89 si ritrovò sull’attenti a salutare il neo-presidente Havel che fino a qualche mese prima era stato oggetto dei suoi pedinamenti.

L’itinerario haveliano dell’agosto ’85 non poteva prescindere da una delle caratteristiche del mondo del dissenso: l’amicizia. Perciò in vacanza si andava a trovare gli amici. Così la prima tappa fu alla fattoria dei Lis, in Boemia settentrionale. Ladislav Lis, ex comunista riformista, era stato portavoce di Charta 77. Quella sera d’agosto, assieme a Havel arrivarono i poliziotti. In un’atmosfera surreale, mentre gli amici chartisti stavano cenando, gli agenti si misero a cercare documenti di Charta 77. Non trovarono nulla, e dire che bastava guardare nell’auto di Havel, e qualcosa di “proibito” l’avrebbero trovato, prima che la signora Lis lo nascondesse nel cavo di un albero e nella stalla, dove l’asinello riuscì nottetempo a rovesciare la borsa e sparpagliare samizdat dappertutto…

Ad ogni modo sia Havel che Lis vennero fermati e condotti a Praga, dove li trattennero per 48 ore in celle di servizio in cui infilavano ubriachi, teppisti, ladruncoli, che spesso si azzuffavano tra di loro: «Noi “politici” ci buttavano nel mezzo perché l’ambiente violento ci intimidisse», racconta il drammaturgo in visita, dopo l’89, alle celle che per qualche tempo furono adattate a pensione sui generis.

La sera del 12 agosto 1985 Havel arrivò alla casetta di campagna di Stanislav Milota, cameraman e firmatario di Charta 77, e della moglie Vlasta Chramostová, un’attrice che amava allestire spettacoli teatrali anche per la comunità del dissenso. Fuori stazionava la solita Tatra nera della StB, la polizia politica. A un certo punto si scatenò un temporale. «Havel – racconta Vlasta – che era un tipo cortese, propose: “Non dovremmo portargli un po’ di tè caldo?”. Mio marito rispose seccato: “Perché mai? Ma che vadano aff***!”». Alla fine la spuntò l’ospite e, «ombrelli alla mano, uscimmo sotto il temporale, gli agenti dell’StB stavano sonnecchiando con le guance appoggiate ai finestrini. Havel batté al vetro, mostrando il tè: “Signori!…”, e loro sussultarono… ah, i nostri coraggiosi 007!… e rifiutarono anche il tè».

Con la sua Golf color argento, a ferragosto il drammaturgo arrivò in Moravia, ad Olomouc, per rivedere l’ex compagno di detenzione Josef Vlček. Già piuttosto anziano, Vlček era un fervente cattolico che negli anni Cinquanta aveva organizzato una rete per diffondere samizdat religioso ed era stato dapprima condannato a morte, sentenza commutata in 21 anni di carcere. Personaggio limpidissimo, di cui varrebbe la pena scrivere più approfonditamente, già dall’intervista riportata nel video emerge tutta la sua statura umana e religiosa.

Sempre pedinato dalle auto dell’StB, che in alcuni casi lo anticipavano impedendogli paradossalmente di sbagliare strada, Havel scese fino in Slovacchia, a Bratislava, dal battagliero Miroslav Kusý. Scomparso nel febbraio scorso a 87 anni, era stato un teorico convinto del marxismo al punto da aver introdotto negli anni Sessanta il primo corso di “teoria marxista della conoscenza” all’università Comenio. Poi era stato tra i primi a sottoscrivere l’iniziativa informale Charta 77 e a pagarne le conseguenze, diventando volente o nolente uno dei leader del dissenso civile in Slovacchia (pur rimanendo marxista fino all’ultimo respiro – perché il mondo del dissenso era un ambiente variegato e inclusivo).

«Non ci fu niente di clandestino in quel viaggio», spiega Kusý nel documentario. «Ci scambiammo anche delle cartoline, per testare la tolleranza della polizia politica». In Slovacchia però, regione un po’ decentrata, i poliziotti non usavano i guanti di velluto: «Bloccarono tutte le vie d’accesso a casa, si comportarono come cafoni», ricorda Kusý disgustato. Havel fu fermato e, ennesimo particolare surreale, uno degli agenti gli chiese il permesso di guidare la Golf, modello raro all’Est all’epoca, fino alla centrale di polizia, dove la mattina dopo gli intimarono di lasciare Bratislava «e di non farsi più vedere per almeno 20 anni».

Meno di cinque anni dopo, il 12 gennaio 1990, il presidente Havel era in visita ufficiale a Bratislava.

«Ti alzi – racconta il poliziotto Dvořák – e c’è la rivoluzione… Nessuno ci aveva preparati… E un paio di giorni dopo essere stato eletto presidente, Havel viene di persona a presentarci il nuovo ministro degli Interni, Sacher, e a visitare la nostra stazione di polizia… Non che avessi paura, ma ero nervoso, mi dissi: speriamo che non vengano ad arrestarci!… Havel si rivolge a me e dice: Mi permetta di presentarle il nuovo ministro degli interni. Rispondo: Ah sì, lo conosco di vista, da quando lavorava alla pasticceria qui vicino…».

Foto Ansa

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