La strategia dello Zelig

Lettura contromano delle mosse di Trump in Siria. Non è stato riassorbito dal “blob di Washington”, ma ha costretto Putin a cercare un accordo

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La nuova vulgata dice che Donald Trump ha cambiato idea, che non cerca più l’accordo con Mosca ma lo scontro, che è stato riassorbito dal “blob di Washington”, cioè l’establishment della politica estera americana formato dal complesso militar-industriale, i servizi segreti (Cia, Nsa, ecc.), gli alti dirigenti della segreteria di Stato e del Pentagono, come dimostrerebbe il fatto che ha cambiato linea su tutti i più importanti temi internazionali nei quali si era distinto dalla rivale Hillary Clinton durante la campagna presidenziale oltreché dall’amministrazione Obama. Trump aveva detto e fatto ripetere ai suoi collaboratori come l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu Nikki Haley e il segretario di Stato Rex Tillerson che «la nostra priorità non è più concentrarci sulla partenza di Assad», ma dal 7 aprile anche lui come una Hillary o un John Kerry ripete in ogni occasione che Assad se ne deve andare, e l’unica differenza rispetto a loro è che l’invito è accompagnato da espressioni molto più esecratorie nei riguardi del capo di Stato siriano.

Non ha annullato l’accordo nucleare con l’Iran approvato da Obama, non ha trasferito l’ambasciata Usa in Israele a Gerusalemme, è passato dall’ostilità alla collaborazione con l’Unione Europea, ha dichiarato che «la Nato non è più obsoleta», dopo avere ripetuto decine di volte che lo era. E soprattutto ha affermato che le relazioni con la Russia «forse hanno toccato il minimo storico. Non stiamo andando per niente d’accordo con la Russia». Musica per le orecchie del New York Times, di John McCain, di Leon Panetta, di tanti pesi massimi del Partito repubblicano e di quello democratico. Ma le cose stanno veramente così? Molti indizi inducono a pensare di no.

L’amministrazione Trump ha avvisato i russi dell’attacco alla base di Shayrat in anticipo, il che ha permesso a Mosca di avvisare a sua volta i siriani e ridurre al minimo le perdite di uomini e mezzi. I 59 missili Tomahawk lanciati da navi da guerra americane nel Mediterraneo avrebbero causato la morte di 15 persone (nove militari) e distrutto a terra nove aerei da combattimento che secondo la tivù russa erano fuori servizio, lasciando intatte le piste dell’aeroporto, che sono state utilizzate dall’aviazione militare siriana già nelle ore seguenti. Le forze russe presenti in Siria non hanno nemmeno tentato di intercettare e abbattere i missili americani, e il previsto vertice di Mosca fra i ministri degli Esteri dei due paesi, l’americano Tillerson e il russo Lavrov, non è stato annullato ma si è regolarmente svolto cinque giorni dopo l’attacco Usa.

Al G7 riunito a Lucca il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson ha proposto di comminare nuove sanzioni alla Russia ma gli altri paesi, Stati Uniti inclusi, si sono rifiutati di seguirlo su tale strada. Al termine del summit di Mosca Tillerson ha ribadito la volontà americana di veder uscire di scena Bashar el Assad, ma anche che non c’è un data fissata per le sue dimissioni. A più riprese Trump e la sua amministrazione hanno precisato che la priorità numero uno degli Usa in Siria resta la lotta contro l’Isis e contro Tahrir al-Sham (l’ultimo nuovo nome che si è data Al Qaeda di Siria), che gli Usa non entreranno come belligeranti nel conflitto fra il governo siriano e i ribelli e che la partenza di Assad dovrà essere il risultato di un processo politico negoziato e non la conseguenza di una sua sconfitta sul piano militare.

Questi e altri indizi fanno intendere molto chiaramente che gli Usa non stanno pensando a un’escalation bellica in funzione anti-russa e anti-Assad a vantaggio dei ribelli, ma hanno lanciato forte e chiaro l’avvertimento che governativi di Damasco e loro alleati russi non possono pensare di risolvere la crisi siriana con una vittoria delle armi, bensì devono fare i conti con gli Usa e negoziare per davvero con loro un accordo onnicomprensivo.

Secondo la grande stampa anglosassone ed europea la nuova politica siriana dell’amministrazione Trump nasce dall’esigenza di recuperare un po’ di consenso presso un’opinione pubblica in maggioranza critica dell’operato del neo-presidente: mentre fino a ieri secondo la Gallup gli americani che approvavano la sua azione politica oscillavano attorno al 40 per cento, il bombardamento di Shayrat e le durissime dichiarazioni su Assad hanno registrato un consenso del 57 per cento. Ma soprattutto sarebbe la risposta alla pressione e financo ai ricatti dello “stato profondo” (espressione evocata non da sostenitori di Trump, ma dal peraltro nemicissimo New York Times) che con continue fughe di notizie mira ad avvalorare l’immagine di un’amministrazione presidenziale infeudata a Putin.

Il presidente, accusato di avere vinto le elezioni anche grazie all’aiuto degli hacker russi che avrebbero attaccato i server del Partito democratico e del capo della campagna presidenziale di Hillary Clinton, ha perduto in febbraio il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn da lui nominato, proprio per vicende legate a rapporti con dirigenti di Mosca: il generale in pensione è stato costretto alle dimissioni per aver mentito su suoi incontri con diplomatici russi. E il 31 marzo è stata diffusa la notizia che Flynn era pronto a testimoniare non si sa che cosa in cambio dell’immunità. La svolta di Trump avrebbe a che fare con quelli che sembrano essere veri e propri ricatti, ai quali già avrebbe ceduto nominando a capo dell’ufficio del Consiglio di sicurezza nazionale che si occupa della Russia e dell’Europa una diplomatica nota per le sue critiche a Vladimir Putin, cioè Fiona Hill.

La differenza con Obama
In realtà la mossa di Trump in Siria mira a prendere due piccioni con la stessa fava: serve ad allentare la pressione mediatica e politica (non ancora giudiziaria, siamo in America) che vuole presentarlo come un presidente a capo di un’amministrazione venduta alla Russia, ma è anche la strada per arrivare a un accordo coi russi sulla Siria e non solo su quella. La differenza fra Obama e Trump non è che il primo era intransigente coi russi mentre il secondo sarebbe stato fino a una settimana fa accondiscendente, prima di rinsavire e diventare anche lui intransigente. La differenza è fra un’amministrazione che mirava a logorare Mosca per provocare un “regime change” al Cremlino e una che vuole concludere accordi vantaggiosi per gli Usa con gli attuali governanti russi.

L’appoggio misurato ai ribelli siriani che hanno messo alle corde gli Assad storici alleati di Mosca, il sostegno alle Rivoluzioni arancioni, l’allargamento della Nato, lo scudo antimissilistico in Polonia e Repubblica Ceca, il sabotaggio della soluzione di compromesso che avevano raggiunto governo e opposizione a Kiev nel febbraio 2014 sotto l’egida dell’Unione Europea per arrivare alla caduta pura e semplice del governo del filorusso Viktor Janukovyč sono state tappe di uno strangolamento della Russia che doveva incoraggiare l’opposizione interna a Putin a iniziare una rivoluzione arancione anche a Mosca, e invece ha causato reazioni aggressive come l’annessione della Crimea, la guerra segreta nel Donbass, l’intervento militare in Siria. Trump, il cui famoso libro L’arte di fare affari ha venduto un milione e 100 mila copie nella sola edizione inglese, sa meglio di tutti che il modo migliore per fare un buon affare, cioè alle migliori condizioni per sé, è scegliersi come controparte qualcuno che ha assolutamente bisogno di concludere un accordo. In Siria quelli che ogni giorno che passa hanno più bisogno di arrivare a un accordo sono i russi. Se li si mette in difficoltà, saranno loro a fare concessioni.

 

Marionetta del Cremlino?
Gli Stati Uniti non intendono intervenire in forze, ma non vogliono nemmeno che qualcuno dei contendenti arrivi alla vittoria sul campo. I ribelli non devono poter abbattere Assad, perché si correrebbe il rischio che le armi chimiche ancora presenti negli arsenali di Damasco finiscano nelle mani di gruppi terroristi: per allungarsi la vita Assad non ha bisogno di usare le armi chimiche, gli basta continuare a detenerle. Nessun leader mondiale sano di mente vorrà correre il rischio di veder cadere nelle mani dell’Isis o di Al Qaeda il sarin siriano: in Europa i terroristi non farebbero più gli attentati coi camion, ma col sarin. Ma nemmeno Putin e Assad devono poter vincere, nel momento in cui gli Usa possono impedirlo e lucrare vantaggi geopolitici da questo.

La politica di Damasco e Mosca finora è stata quella di guadagnare tempo con inconcludenti negoziati a Ginevra, per progredire intanto sul campo di battaglia. Con il bombardamento di Shayrat e le successive dichiarazioni Trump ha voluto chiarire che Mosca, Damasco e Teheran non possono in nessun modo sperare in una vittoria sul campo, e che gli Usa vogliono essere realmente parte contraente di un accordo, per la definizione del quale ognuno deve rinunciare a qualcosa nel momento stesso in cui fa valere i suoi interessi. Adesso che nessuno in America può più pensare che Trump e i suoi siano marionette del Cremlino, il negoziato per il “grand deal” con Putin può cominciare.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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