La strana idea di parlare ai giovani della positività di Pavese. «Aveva capito che la vita è comunione: “Se si è soli anche l’io se ne scompare”»

Lunedì 8 settembre al "Meeting del libro usato" di Brescia il professor Valerio Capasa proporrà ai ragazzi una inedita «amicizia» con il grande poeta morto suicida

Sono sempre di più i giovani che affollano quello che non è un semplice mercatino di libri, ma un vero e proprio “Meeting del Libro Usato”. Organizzato presso l’oratorio di via Botticelli a Brescia dal Centro culturale “Pier Giorgio Frassati”, porta per titolo un’affermazione di don Luigi Giussani: «Vivere è condividere. La legge della vita è la carità».
L’iniziativa, alla sua dodicesima edizione, oltre a promuovere la compravendita di libri usati senza scopo di lucro, serve a favorire l’incontro fra studenti, attraverso la proposta di eventi culturali, mostre, spettacoli, concerti e incontri pubblici per approfondire le tematiche legate allo studio e all’attualità. Si va dal problema della dislessia, oggi al centro del dibattito, al rapporto fra il mondo reale e gli scritti di Tolkien, fino alla scoperta di un Cesare Pavese propugnatore della vita come comunione.

RITORNO ALL’UOMO. Perché far parlare di comunione proprio un poeta che suicidandosi parve negare il suo legame con il mondo? Sarà Valerio Capasa, professore e autore di numerosi articoli e volumi dedicati alla figura del grande scrittore italiano, a rispondere a questa domanda lunedì prossimo di fronte agli oltre 200 ragazzi che ogni anno partecipano al Meeting. Capasa ha spiegato a tempi.it che «questo è il leitmotiv della sua esistenza. Nel 1945, appena finita la guerra, Pavese scrisse un saggio, Ritorno all’uomo, in cui parla continuamente della comunione, affermando che siamo sempre più fragili perché ci dimentichiamo che la vita è comunione e così soffochiamo nella nostra solitudine». Questo secondo Pavese vale per la vita in generale, quindi anche per la letteratura, «perché gli uomini oltre che di una compagnia fisica hanno bisogno di parole e attendono i nostri giudizi per non smarrirsi». Capasa sottolinea la genialità con cui il poeta giudicava il problema del dialogo fra gli uomini: «Secondo lui siamo diventati istintivi nell’usare anche le parole, ci dimentichiamo di quanto siano necessarie a rivelare all’altro chi è». Tanto che nel Mestiere di vivere Pavese stesso ricordò: «Se si è soli anche l’Io se ne scompare». E in tutta la sua opera, spiega Capasa, «insistette sulla stranezza per cui per avere me stesso ho bisogno di un altro che me lo dia».

IL PRIMO ROMANZO DI CALVINO. Cosa avrebbe da dire allora lo scrittore a una società come la nostra, che parlando di libertà teorizza l’imparzialità e la distanza dei docenti dai discenti e dei padri dai figli? Capasa rispondo con un episodio della vita di Pavese: «Quando lui era già affermato. Italo Calvino era un ragazzo che scriveva il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, credendo di aver “partorito” un’opera impegnata sulla resistenza partigiana. Pavese lesse il romanzo e disse che era fiabesco. Calvino poi raccontò di non aver capito da sé di essere uno scrittore fiabesco, ma di averlo compreso grazie a un altro che glielo aveva rivelato». Una “ingerenza” nell’esistenza altrui che probabilmente la mentalità scolastica neutrale moderna percepirebbe come imposizione per Pavese era invece il segreto della vita. Anche se, continua, Capasa, «noi ce ne dimentichiamo, ci incrociamo per strada, scriveva, ignorando “il cancro che tormenta la vita dell’altro”».
È qui che si capisce che il problema del poeta morto suicida non era una solitudine fisica, ma esistenziale, «tanto che diceva di vivere questa estraneità anche con i suoi amici storici. Nel suo romanzo Il compagno si legge: “Pensavo, invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch’ero solo come un cane”». E ancora, circondato dagli amici di sempre, «spiegava che siamo “impalpabili”, perché non tocchiamo la cosa più nostra che abbiamo in comune, il cuore l’uno dell’altro».

NEMMENO UNA SIGARETTA. Potrebbe sembrare balzano esaltare come modello positivo le idee di un uomo che è morto disperato, ma secondo Capasa «la grandezza di Pavese può aiutare molto i giovani: è vero lui non dà soluzioni perché non ne ha, ma ha il coraggio di vivere fino in fondo la sua domanda infinita, senza lasciarla anestetizzare da nulla: “Da chi non è pronto a legarsi con te tutta la vita – diceva – non dovresti accettare neanche una sigaretta”. Come a dire: non accontentarti di rapporti piccoli, meschini». Se dunque Pavese non spiega come si deve vivere, «certamente rivela chi è l’uomo, offrendo così a chi lo conosce la prima condizione per cominciare a camminare e magari trovare una risposta. Se un giovane non si accorge della portata infinita del desiderio che ha in cuore, nella vita si accontenterà delle risposte parziali con cui il potere lo terrà in pugno. Pavese è una amico che, a differenza di tanti, può aiutare i ragazzi a non lasciarsi ingannare».

@frigeriobenedet

Exit mobile version