La scuola paga per tutti

Quando riapre? Il 7 gennaio o in primavera? Il baco è, come al solito, nella premessa: il rischio zero non esiste

Quando si tornerà a scuola? Il 7 gennaio, assicurano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro Lucia Azzolina. Ma forse no, magari si riapre a marzo o ad aprile, chissà. «La scuola non sembra ancora organizzata in fatto di tamponi rapidi al personale, ma soprattutto sul fronte dei trasporti degli studenti. Secondo la Cisl non ci sono le condizioni per una ripresa in sicurezza» scrive Il Sole 24 Ore (17 dicembre). Se tutto andasse come vorrebbero Conte e Azzolina (e le famiglie e gli studenti italiani), il 7 gennaio riprenderebbero le lezioni in presenza, alle superiori al 75 per cento. «I numeri in campo – scrive sempre il giornale di Confindustria – sono importanti: in base alle regole attuali rientrerebbero sui banchi circa 2 milioni di alunni di licei, tecnici e professionali, oltre ai 5 milioni di ragazzi del primo ciclo già a scuola al 100% da settembre, seppur a singhiozzo, in base alla cartina a colori dell’Italia».

Rischio zero e rischio calcolato

Ma, appunto, sia all’interno del Comitato tecnico scientifico sia tra i governatori si tira il freno. Perché? Per il solito ragionamento che – anche quando non è suffragato da numeri, come nel caso della scuola – trova le sue ragioni in un atteggiamento di iper-prudenza. D’altronde, “chiudere e basta” è la soluzione più semplice e, apparentemente, più saggia. Solo che, a differenza di quel che si vuol far pensare, non è priva di costi. Al contrario un prezzo da pagare esiste, solo che, come ha detto il coordinatore del Cts Agostino Miozzo nell’intervista video che potete vedere di seguito, è un «prezzo di cui non ci rendiamo conto perché non è evidente». È il prezzo pagato dai ragazzi (che nessuno ascolta, tanto non votano) e dalle famiglie.

Il baco, come al solito, è nella premessa: se l’obiettivo è il rischio zero o il rischio di evitare un’altra ondata che, al momento attuale e per i numeri che abbiamo, è solo un’ipotesi, allora la chiusura delle scuole è conseguenza logica. Se, invece, la nostra premessa è che l’educazione in presenza è una priorità e che, a fronte di un rischio calcolato, possiamo avere una scuola sicura, allora possiamo far tornare gli studenti tra i banchi.

Scuola luogo sicuro

Ieri sul Foglio è stato anticipato il risultato di un progetto della Società italiana di pediatria, dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, l’Istituto di Ortofonologia e la Fondazione Mite che «si è posto come obiettivo quello di avere dati certi sulla reale pericolosità di diffusione all’interno degli istituti scolastici del Covid-19, attraverso la somministrazione di test diagnostici salivari e test da campione ematico a tutti gli studenti, i professori e il personale Ata».

«Il titolo del lavoro, di cui il Foglio ha letto un estratto in anteprima, è già una risposta alla domanda se la scuola sia o no un posto sicuro: “School in Italy: a safe place for children and adolescents”. La popolazione presa in esame è pari a 1.262 persone (suddivisa in due diversi plessi scolastici). Di questa popolazione presa in esame, gli studenti sono 1.094. Di cui 132 delle materne, 369 delle elementari, 414 delle medie, 336 delle superiori. Gli insegnanti sono 141, gli impiegati sono 27. Positivi trovati: uno studente delle superiori a inizio anno (totale tamponi eseguiti 1.099). A un mese dall’inizio dell’anno: 7 positivi (1 adulto e 6 studenti) su un totale di 1.075 tamponi. A 3 mesi dall’inizio dell’anno 3 positivi (tutti studenti) su un totale di 1.257 tamponi. Numero di cluster all’interno delle classi: zero. Conclusione: “Secondo i dati emersi da questo studio, la scuola in Italia, grazie a tutte le procedure adottate, può essere considerata un luogo sicuro per bambini e adolescenti”».

Miopia e fallimento

Ieri sul Messaggero è stato pubblicato un editoriale a firma di Alessandro Campi (“L’incertezza sulle scuole una rovina per i ragazzi”) che metteva bene a fuoco la situazione. Scriveva il politologo che la situazione attuale è figlia di «un tira e molla su quel che si poteva e doveva fare e quel che era vietato che ha contribuito non poco a deprimere il morale degli italiani».

Il deprimente risultato è ancora più eclatante se si pensa alla scuola dove «in questi mesi s’è venduta ottimisticamente come didattica a distanza, quindi come un’innovazione persino salutare, quella che invece è stata, nella maggior parte dei casi, semplice didattica d’emergenza». Non che la dad non sia stata importante, è solo che, scrive Campi, essa «va utilizzata per ciò che può offrire (moltissimo), non come sostituto funzionale di ciò che per definizione è insostituibile: i rapporti diretti tra persone, nel nostro caso il docente che modula le sue parole e i suoi ragionamenti anche in funzione degli sguardi e dei movimenti del corpo di chi ha innanzi».

Organizzarsi per “fare”, anziché chiudere perché “non si sa cosa fare”, questo dovrebbe essere l’obiettivo della politica. E, invece, come conclude Campi, «tenere le scuole chiuse o mezze aperte, comunque in una situazione di precarietà e incertezza defatigante per gli studenti ma anche per chiunque operi professionalmente al suo interno, è il segno d’una grande miopia e di un fallimento del quale questo governo porta e porterà per intero la colpa».

Foto Ansa

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