La fede intelligente di Benedetto XVI, il Papa «afferrato dalla verità»

La vita di Joseph Ratzinger si può ricostruire interamente come anelito alla verità incontrata in Cristo. Dall’opposizione al nazismo in gioventù alla difesa della ragione dalle riduzioni moderne

Papa Benedetto XVI (foto Ansa)

Nato in Baviera nel 1927 e ordinato sacerdote nel 1951, tra il 1957 e il 1977 Joseph Ratzinger insegnò teologia fondamentale e dogmatica in alcune tra le più prestigiose università tedesche (Monaco e Frisinga, Bonn, Münster, Tubinga, Ratisbona). Tra il 1962 e il 1965 partecipò al Concilio Vaticano II in qualità di consulente e perito. Nel 1972 fondò la rivista cattolica internazionale Communio. Nel 1977 Paolo VI lo nominò arcivescovo di Monaco e Frisinga e lo creò cardinale. Nel 1981 Giovanni Paolo II lo nominò prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, incarico che ricoprì fino al 2005, quando fu eletto papa, scegliendo il nome di Benedetto XVI. L’11 febbraio 2013 annunciò la rinuncia al ministero di vescovo di Roma, assumendo il titolo di papa emerito e ritirandosi nel monastero Mater Ecclesiae in Vaticano, fino al 31 dicembre 2022, suo dies natalis.

Cooperatore della verità

Come insegna la sapienza biblica, «un uomo si conosce veramente alla fine» (Sir 11,28). In effetti, le note biografiche richiamate attestano l’imponenza della figura di Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, che è tra i protagonisti indiscussi della vita della Chiesa del ventesimo e ventunesimo secolo. Al centro della sua voluminosa produzione teologica (l’Opera omnia si compone di 16 volumi) e del suo penetrante insegnamento magisteriale (si pensi alle encicliche, ai grandi discorsi a Ratisbona, all’Università La Sapienza, all’Onu, al Collegio dei Bernardini, a Westminster), che lo rendono tra i teologi più dotti che hanno occupato la cattedra di Pietro, si trova la ricerca indomita della verità, pienamente dischiusa dall’incontro con Cristo, verità vivente (Gv 14,6), da cui si scoprì cercato e trovato:

«È la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi» (Omelia, 02.09.2012).

A seguito della nomina episcopale decise di adottare come motto l’espressione giovannea «cooperatores veritatis» (3Gv 1,8), denunciando sempre con grande coraggio, anche a costo di risultare inviso agli occhi di molti, l’imporsi della «dittatura del relativismo», problema centrale per la fede del tempo presente, che contesta l’affermazione di una verità valida per tutti, e invitando a praticare l’«amicizia con Cristo, che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità» (Missa Pro Eligendo Romano Pontifice).

San Newman e la difesa della coscienza

La tensione alla verità traspare fin dagli anni della giovinezza, in cui Ratzinger conobbe da vicino le atrocità perpetrate dal regime nazista, a cui, per come poté, si oppose e ribellò. Nel 1941 un cugino affetto da sindrome di Down fu ucciso, contestualmente all’Operazione T4, programma di eliminazione dei soggetti affetti da patologie genetiche e disabilità mentali che in tre anni soppresse 90 mila tra handicappati, folli e dementi. Nello stesso anno il giovane Joseph fu iscritto alla Gioventù hitleriana, rifiutandosi di partecipare alle riunioni, rischiando sanzioni pecuniarie; due anni dopo fu assegnato all’aviazione militare, da cui disertò l’anno seguente, rischiando la pena capitale.

Nel 1990, in occasione del centenario della morte di John Henry Newman, accorto studioso della coscienza con i cui scritti era venuto a contatto negli studi seminaristici, l’allora cardinal Ratzinger tornò con la memoria agli anni del nazismo, denunciando i soprusi inflitti alla coscienza individuale, alienata alla volontà di chi deteneva il potere politico e sacrificata in nome di un supposto bene collettivo:

«Avevamo sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la coscienza del singolo. Hermann Göring aveva detto del suo capo: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza è Adolf Hitler”. L’immensa rovina dell’uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi».

In quel discorso Ratzinger denunciò però un’altra forma di contraffazione della coscienza, che era andata affermandosi nella modernità: la visione relativista, secondo cui la coscienza sarebbe impossibilità a riconoscere e aderire a criteri comuni e universali in ambito morale e religioso. Richiamando il pensiero di Newman, secondo il quale la coscienza non va ridotta a opinione personale ma va intesa come la facoltà che giudica e discerne il bene dal male illuminata dalla luce della Verità, esortò a evitare ogni «cedimento all’individualismo», asserendo che «il legame alla coscienza non significa nessuna concessione all’arbitrarietà, anzi si tratta proprio del contrario».

Fede e ragione: il «filo conduttore del mio pensiero»

L’anelito alla verità innerva l’intera indagine teologica di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, che ha quale nota dominante la ricerca delle ragioni della fede nel Dio di Gesù Cristo, secondo il monito dell’apostolo Pietro (1Pt 3,15). Come scrisse nel 2004 nella prefazione alla riedizione del suo scritto giovanile Il Dio della fede e il Dio dei filosofi, il «filo conduttore del mio pensiero» si trova nella riflessione sul «problema circa il rapporto tra fede e ragione». In tal senso, è memorabile il discorso pronunciato all’Università di Ratisbona, in cui Benedetto XVI tracciò la strada al dialogo tra mondo laico e religioso, così urgente nell’odierna società plurale, abitata da soggetti portatori di mondovisioni differenti e a tratti conflittuali.

A fronte del diffondersi di una fede senza ragione, che conduce alla violenza, come accade nel fondamentalismo islamista, il Papa disse che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». Al tempo stesso, a fronte del propagarsi di una ragione senza fede, che preclude pregiudizialmente l’apertura al Trascendente o comunque la sua incidenza nella vita consociata, come accade nel laicismo che permea vasti settori sociali e apparati politici occidentali, il papa invitò a superare l’«autolimitazione moderna della ragione» oltre i limiti metodologici della razionalità tecno-scientifica, senza ricusare le acquisizioni moderne, ma operando un «allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa», così da ovviare alla «limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento» e dischiuderle «nuovamente tutta la sua ampiezza».

Il dialogo con la scienza e la politica

La fede nel Logos incarnato (Gv 1,14), in cui tutto consiste e sussiste e verso cui tutto protende (Ef 1, Col 1), portò dunque il Papa teologo a perlustrare e testimoniare la verità. Si pensi alla cospicua riflessione inerente al tema della creazione e dell’evoluzione, volta a promuovere il dialogo col mondo della scienza; alla passione per la musica, l’arte e la letteratura, di cui sono ricchi i suoi scritti, nella convinzione che la via pulchritudinis costituisca la strada maestra per elevare l’animo a Dio, fonte di Bellezza; al dialogo, franco e rispettoso, con le istituzioni politiche, basato sull’assunto che l’ambito politico non è teocraticamente costituito e però è eticamente fondato, in quanto la politica è la sfera in cui si regolano i rapporti sociali affinché siano vissuti con giustizia, motivo per cui il potere religioso ha il diritto e anzi il dovere di dialogare col potere politico sul terreno dell’ethos, per favorire la tutela della dignità umana e il perseguimento del bene comune. In questa cornice si collocano i molteplici richiami volti a promuovere la salvaguardia dei diritti fondamentali della persona (vita, libertà politica, libertà religiosa) e delle istituzioni e dei rapporti sociali fondamentali (matrimonio e famiglia).

La passione per la verità spinse Ratzinger a dare vita, al principio degli anni Settanta, alla rivista Communio, insieme a Hans Urs von Balthasar e Henri de Lubac, a cui si unirono Eugenio Corecco, Angelo Scola, Marc Ouellet, Christoph Schönborn, Louis Bouyer, Marie-Joseph Le Guillou e Jean-Luc Marion. La rivista, ponendosi in dialettica con Concilium, fondata nel 1965 da Karl Rahner, Edward Schillebeeckx e Johann Baptist Metz, si prefisse di istruire una riflessione ancorata alla tradizione, con un’apertura alla modernità critica e mai ingenua. In quel gruppo di giovani studiosi, a cui nel tempo se ne aggiunsero altri, si rinviene una cerchia di amici che nei decenni successivi avrebbero contribuito in maniera decisiva alla guida della Chiesa.

Le amicizie con Giovanni Paolo II e don Giussani

Tra le amicizie che hanno segnato la vita di Joseph Ratzinger si vuole ricordare quelle con Giovanni Paolo II e Luigi Giussani, dei quali celebrò le esequie funebri a poco più di un mese di distanza l’una dall’altra. Se il rapporto col Papa polacco è assai noto e la comune visione teologica è acclarata dal servizio prestato come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede durante quasi l’intero pontificato di Giovanni Paolo II, assai intensa fu anche la frequentazione col sacerdote ambrosiano, fondatore del Movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. L’amicizia con Giussani è certamente ascrivibile alla stima e gratitudine per i frutti del suo lavoro pastorale, parte integrante dell’azione missionaria promossa dai movimenti laicali sorti nella Chiesa a cavallo della stagione conciliare, che Joseph Ratzinger considerava «l’elemento veramente vivificante nello sviluppo del periodo postconciliare» (Communio 1998).

L’amicizia con Giussani è però riconducibile anche e più profondamente a una sintonia umana e convergenza teologica. I due infatti condivisero il gusto per la musica e la letteratura, l’attenzione rivolta al tema della razionalità della fede, e la concezione del cristianesimo come avvenimento di un incontro che dischiude l’accesso alla verità e inaugura una vita nuova. È questo un tema profondamente giussaniano, che risuona nell’incipit della lettera enciclica Deus caritas est:

«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

La «schietta umanità» dei cristiani

Al principio dell’avventura umana di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si trova dunque l’incontro con Cristo, il Dio vivente, che produce un cambiamento di vita, realizzando l’originaria condizione religiosa dell’esperienza umana, protesa alla ricerca della Verità, che sola dona la vera gioia:

«Cercare il Signore, incontralo nella vita significa anche accogliere la sua Parola, vi troverete una risposta alle domande più profonde di verità che albergano nel vostro cuore e nella vostra mente… Per rimanere nella gioia, siamo chiamati a vivere nell’amore e nella verità, a vivere in Dio» (Messaggio per la XXVII giornata mondiale della gioventù).

Non a caso, interrogato a riguardo di ciò che più di ogni altra cosa certifica la verità della fede, rispose:

«Non saprei individuare una prova della verità della fede più convincente della schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori» (Autobiografia).

Promotore di una fede intelligente

Joseph Ratzinger-Benedetto XVI ha affermato incessantemente la priorità di Dio (Primat Gottes), definendosi un «semplice, umile lavoratore nella vigna del Signore», e così ha servito fedelmente la Chiesa di Cristo. Lo ha fatto con acuta intelligenza, ma anche con ferma risolutezza (si pensi agli abusi, che cercò energicamente di contrastare sul piano culturale e disciplinare, come riferì negli Appunti pubblicati nel 2019), in veste di teologo, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e pontefice, e lo ha fatto con animo orante, in specie negli anni trascorsi in ritiro presso il monastero Mater Ecclesiae, quando le forze fisiche vennero progressivamente, coadiuvato dal sostegno e vicinanza della famiglia pontificia.

In tal modo, papa Ratzinger ha contribuito in maniera incisiva e pregnante alla promozione di una fede intelligente, alimentata dall’amicizia dei fratelli e delle sorelle nella fede, inscrivendosi nella tradizione viva della Chiesa, a cui diede voce in modo mirabile nelle catechesi su Maria, gli apostoli e i primi discepoli, sui padri e i dottori della Chiesa, che egli sentiva come compagni di viaggio e maestri nella fede, con cui adesso sta certamente gioendo, in un cielo affollato di angeli, al cospetto del Dio amore (1Gv 4,16). In lui prese così vita il detto del connazionale sant’Alberto Magno, da lui amato e venerato: «In dulcedine societatis quaerere veritatem» (Politicorum VIII).

Exit mobile version