Jobs Act, local tax, spending review? Ma perché non parli come magni?

Eh, no: adesso basta. Anche la “local tax” proprio no. Finitela, una buona volta, con questa deriva linguistica. La mia non è una ribellione anti-tasse di fronte all’ultima novità impositiva che si presenta sull’orizzonte fiscale italiano. Sarei solo l’ultimo della fila degli esasperati. La ribellione che vorrei inaugurare e capeggiare è quella contro l’invasione di espressioni anglofone nel linguaggio politico e istituzionale italiano. Hanno cominciato con la “spending review”, che sarebbe la revisione della spesa pubblica al fine di realizzare risparmi; poi sono passati al “Jobs Act”, che sarebbe la legge che riforma i termini dei contratti del lavoro dipendente e le norme per i licenziamenti. Il parapiglia intorno alla riforma del lavoro non è ancora finito (forse è solo appena iniziato) che già ci rifilano ‘sta “local tax”? Ma perché? Ma a che scopo?

Che le lingue prendano in prestito da altre lingue, è fenomeno che è sempre successo. I fattori sono numerosi e hanno a che fare con la capacità di irradiamento culturale ed economico di una data civiltà. Diciamo week-end molto più spesso che fine settimana e film piuttosto che pellicola perché il modello culturale americano, grazie alla spinta che gli imprime la potenza economica e militare degli Stati Uniti, cinquant’anni fa è diventato desiderabile per tanti italiani. Ma anche la nostra lingua, in forza dell’irradiamento della nostra cultura, è stata ed è tuttora capace di prestare parole alle altre lingue: non solo termini riferiti alla gastronomia come “pizza” e “pasta”, o, purtroppo per noi, alla criminalità come “mafia” (che a sua volta viene dall’arabo ed è stata esportata in Sicilia al tempo della dominazione araba), ma anche termini colti come “opera”, “concerto”, “soprano”.
Su Le Monde mi è capitato tante volte di leggere la parola “aggiornamento” scritta in corsivo nel bel mezzo di un articolo sulla politica francese: trattasi di espressione che furoreggiò al tempo del Concilio Vaticano II, dopo che Giovanni XXIII, nell’allocuzione con la quale ne annunciò l’indizione nel 1959, l’aveva utilizzata riferendosi al Codice di diritto canonico. Fu utilizzata per invocare un rinnovamento radicale della Chiesa cattolica. Qualcosa che alcuni vorrebbero fare oggi. Ebbene, un caposaldo del laicismo francese come Le Monde l’ha adottata e continua ad utilizzarla.

Quel che non era mai successo, quello che è inedito e inaudito nella storia dell’Italia unita, è questa invasione di termini anglosassoni nell’ambito più importante della vita sociale: quello della politica e delle leggi. Noi che siamo gli eredi del diritto romano e di Cesare Beccaria, noi che, come fa Alberto Sordi in un’indimenticabile sequenza de “I due nemici”, potremmo rivolgerci a un anglo-americano ogni volta dicendogli: «I miei antenati costruivano acquedotti ed impianti fognari, quando i tuoi ancora si dipingevano la faccia di blu!», noi ci siamo ridotti a dire e a scrivere “Jobs Act”, “spending review”, “Authority”, “bipartisan”, “convention”, “austerity” e via di questo passo. La cosa è assolutamente allarmante perché la politica e le leggi sono l’ambito della sovranità di un popolo e di un paese. Che l’inglese o un’altra lingua dominino il mondo della finanza, degli enti internazionali, dell’organizzazione delle imprese, dell’innovazione tecnologica, riusciamo a capirlo e ad accettarlo. Ci sono ragioni obiettive, fattuali, che spingono nella direzione dell’egemonia dell’inglese. Anche se qualcuno dovrebbe spiegarmi perché noi siamo gli unici latini che scrivono e dicono “computer”, mentre i francesi scrivono “ordinateur”, gli spagnoli “ordenadora” o “computador”, i portoghesi “computadora”. Troppo difficile scrivere e dire “elaboratore” o “elaboratore dati”?

Adesso però si è passati alla politica, e questo è un salto di qualità. In negativo. La politica è l’ambito della sovranità, dei dibattiti e delle decisioni intorno al bene comune a livello di una data nazione, perciò dovrebbe svolgersi nella lingua madre della maggioranza della popolazione, fatte salve le salvaguardie per le minoranze linguistiche. L’introduzione e la pervasività crescente di una lingua straniera fanno pensare a una serie di cose, tutte negative.
La prima è che si vuole escludere una parte dei cittadini – la parte più debole – dalla discussione politica. Si usa una lingua che molti non capiscono per tagliarli fuori dalla discussione, per alimentare in loro un sentimento di estraneità dalla politica, un complesso di inferiorità e di vergogna che faccia loro pensare: «Siamo troppo ignoranti, le questioni politiche le dobbiamo lasciare agli altri, agli esperti».
La seconda cosa che viene in mente è che l’uso di una terminologia alloglotta (cioè appartenente a lingua diversa da quella maggioritaria) finisce per generalizzare e banalizzare l’idea che la sovranità sull’Italia non appartiene più al popolo italiano, ma a soggetti, non si sa se personali o impersonali, se fisici o giuridici, che stanno fuori e lontano dall’Italia. Si finisce per convincere gli italiani a sentirsi cittadini del mondo, sì, ma di un mondo dove comanda qualcun altro. D’accordo, gli Stati Uniti e la finanza anglosassone detengono ancora l’egemonia politico-economica planetaria, ma in Francia o in Germania non si sognerebbero mai di usare l’inglese per parlare di cose dello Stato o per battezzare riforme legislative o altri atti di governo.

La cosa paradossale è che l’invasione della terminologia anglosassone nel lessico politico italiano avviene con la benedizione di un presidente del Consiglio fiorentino, cioè originario della città che, secondo una certa interpretazione, avrebbe dato i natali alla lingua italiana. Se oggi Alessandro Manzoni si recasse a Firenze per “sciacquare i panni in Arno”, cioè per rendere più puro l’italiano in cui aveva scritto I promessi sposi, Matteo Renzi lo inviterebbe probabilmente ad andare a bagnarli nel Tamigi o nel Potomac.

Certo, lo sappiamo, la xenofilia linguistica degli italiani è anche una reazione al Ventennio fascista durante il quale il regime praticò una politica volta a mettere al bando dialetti, lingue minoritarie e forestierismi, come erano definite allora le parole straniere importate nella lingua italiana. L’obiettivo era non solo quello della coesione nazionale attraverso l’omologazione linguistica, ma anche di alimentare l’orgoglio nazionalistico: l’Italia e gli italiani non avevano bisogno di usare parole straniere, il cui uso avrebbe leso l’identità e il prestigio nazionali. Gli italiani dovevano sentirsi talmente importanti da parlare usando solo parole della pura lingua italiana. All’inizio si lavorò di propaganda: vennero persino indetti concorsi che premiavano chi suggeriva il termine italiano migliore per sostituire una parola straniera divenuta invadente. Poi si passò all’imposizione: vennero emanate leggi e decreti che cancellarono i forestierismi dalle insegne commerciali e dai nomi delle ditte, importanti enti dovettero cambiare nome. Il Touring Club Italiano divenne Consociazione turistica italiana.

L’odierna generalizzazione della terminologia anglosassone entro il discorso politico italiano vuole forse convincere gli italiani che la loro nazione non è più importante? Che devono adeguarsi e sottomettersi a un ordine internazionale deciso da altri? Se stiamo alla retorica del Presidente del Consiglio Renzi, no di certo: non passa settimana senza che costui esalti il genio italiano e il ruolo dell’Italia nel mondo, e senza che attacchi le istituzioni europee in nome dell’interesse nazionale.
La questione è probabilmente un’altra. L’uomo è vanitosissimo, e questo ricorso ossessivo all’inglese sembra piuttosto trasmettere il messaggio: «Io ne so molta più di voi, io sono di casa là dove si decidono le sorti del mondo, io porterò l’Italia al tavolo dei potenti». Renzi parla e fa parlare sempre inglese per farsi grosso agli occhi dei suoi connazionali. Se qualcuno ha una spiegazione più convincente di questa, la tiri fuori.

@RodolfoCasadei

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