Jihad. Citofonare Molenbeek

Da anni nella capitale belga squilla un campanello d’allarme che tutti ignorano. Un libro ha ricostruito una ad una le vite dei kamikaze made in Bruxelles

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Sono stato a combattere con l’Isis in Siria e ho scoperto che c’era tutto Molenbeek». Paradossalmente, gli unici che non hanno paura di essere accusati di razzismo in Belgio sono i jihadisti stessi. E il motivo è semplice: sono orgogliosi di essere cresciuti nel quartiere di Bruxelles che ha dato i natali o ha ospitato quasi tutti gli autori degli attentati che tra il 2015 e il 2016 hanno terrorizzato la Francia e il Belgio, causando centinaia di morti al grido di «Allahu Akbar», Dio è il più grande. Mohamed Abrini, il 32enne che ha candidamente confermato agli inquirenti i peggiori pregiudizi su Molenbeek, è meglio conosciuto ormai come «l’uomo col cappello».

Esattamente un anno fa, poco prima che l’aeroporto bruxellese di Zaventem venisse investito da molteplici esplosioni, è stato ripreso da una telecamera a fianco di Najim Laachraoui e Ibrahim el Bakraoui. Solo che lui, al contrario degli altri due, non ha potuto (o voluto) detonare l’esplosivo. Abrini è anche l’uomo che ha accompagnato a Parigi in automobile Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto alla strage del 13 novembre 2015culminata con il massacro del Bataclan. E al pari degli altri jihadisti, Abrini è un belga di origine marocchine cresciuto a Molenbeek.

Il quartiere, conosciuto ormai in tutto il mondo come «fabbrica di jihadisti», è davvero diventato l’hub europeo del terrorismo islamico internazionale. Un porto franco da dove sono passati alcuni dei protagonisti, più o meno noti, degli attentati più spettacolari e sanguinosi degli ultimi vent’anni. Molenbeek è anche una terra desolata piagata da immigrazione irregolare, impoverimento urbano, delinquenza e disoccupazione che l’avanzata potente e prepotente dell’islam militante ha trasformato in un piccolo Califfato nel cuore dell’Europa. La storia di questa municipalità non sarebbe così inquietante se non fosse per la sua posizione: le vie brulicanti di mercati, case popolari e fabbriche dismesse non si snodano infatti all’interno di una banlieue alle porte della capitale, ma nel centro stesso di Bruxelles, a dieci minuti a piedi dalla Grand-Place, vicino al Parlamento europeo. Ed è per capire com’è possibile che nel cuore stesso dell’Europa sia nata una succursale di Raqqa che due giornalisti belgi, inviati di lungo corso ed esperti di terrorismo, hanno svolto un’indagine durata mesi e culminata nel libro Molenbeek-sur-djihad (ed. Bernard Grasset, 300 pp, 21€).

Christophe Lamfalussy e Jean-Pierre Martin hanno dipanato con pazienza uno a uno i fili delle storie degli Abrini, degli Abdeslam, dei Bakraoui, dei Laachraoui, che si intrecciano sempre tra di loro (ma quali lupi solitari?), fino a tessere la tela di «un simbolo, quello della negligenza, del candore, della paura di stigmatizzare, degli accomodamenti ideologici; in breve, della cecità politica delle autorità belghe che ha permesso a dei fanatici di prosperare nella totale impunità».

Molenbeek non è sempre stato questo. Affacciandosi sul canale aperto nell’Ottocento per trasportare il carbone dal sud al nord del Belgio, brulicava di industrie, lavoro, botteghe. Poi gli zuccherifici hanno chiuso, la manifattura del tabacco è fallita, le mostarderie hanno traslocato e le fabbriche di stufe a carbone sono passate di moda. Molenbeek è rapidamente cambiato. Negli anni Settanta ondate di immigrati provenienti dal Marocco si sono installati in quel che restava di un quartiere un tempo lodato e decantato da tutta Bruxelles, moschee e centri islamici appaltati all’Arabia Saudita e gestiti da salafiti o Fratelli Musulmani sono spuntati come funghi. I famosi estaminet sono stati sostituiti dai bar, dove però non si serve più né birra né altre bevande alcoliche. In trentacinque anni la popolazione di Molenbeek è aumentata di un terzo e oggi in appena sei chilometri quadrati abitano 95.414 abitanti. Una famiglia su dieci vive in alloggi pagati dal Comune, uno su venti campa con il sussidio, la disoccupazione è al 41 per cento, quella giovanile al 52. Il 60 per cento dei residenti, senza contare le migliaia di irregolari, sono di origine marocchina e il 45 per cento professa l’islam (contro il 7 per cento nell’intero Belgio).

«Voi, cani. Pagherete col sangue»
In sei chilometri quadrati sono stati aperti 41 luoghi di preghiera, tra cui 25 moschee, solo quattro di queste riconosciute ufficialmente. Su circa 500 jihadisti che hanno lasciato il Belgio per combattere il jihad in Siria (in rapporto alla popolazione, la media più alta d’Europa) almeno 79, quasi uno su cinque, sono partiti da Molenbeek. Non stupisce perciò che per le strade del quartiere comandi la «legge dell’islam» e non quella dello Stato. Tutte le donne, comprese le bambine, portano l’hijab o il niqab (che lascia scoperti solo gli occhi). «Vent’anni fa si vestiva all’europea», dichiara un assessore del municipio. «Ora invece le donne sono velate e quelle che non lo fanno sono trattate come puttane o infedeli». Né le donne velate, né le altre possono in ogni caso sedersi nelle terrazze dei bar, riservate ai soli uomini. Allo stesso modo le coppie non possono camminare per strada tenendosi per mano.

«Quando vai a Molenbeek, subisci uno shock culturale e fisico», spiega il corrispondente di Libération a Bruxelles, Jean Quatremer. «A duecento metri dalla Grand-Place, ti ritrovi in Arabia Saudita. Non ho mai visto niente del genere: in quale città europea esistono terrazze vietate alle donne? E se osi dirlo, ti accusano di non amare il Belgio. È un’affascinante negazione della realtà».

Rue du Prado, nel cuore del quartiere, è da sempre conosciuta come «piccola Gerusalemme» per la grande quantità di botteghe gestite da artigiani ebrei. Oggi però se ne sono andati tutti. Solo una coppia resiste, anche se ha appena ricevuto questa lettera anonima: «Noi siamo la religione del Dio onnipotente. Voi, dei cani. E pagherete con il sangue. Fuori da questo quartiere. Cristiani ed ebrei, andatevene. Questo è l’ultimo avvertimento». L’antisemitismo spopola anche nelle scuole pubbliche del quartiere, come testimonia un’insegnante: «I professori non osano più parlare di Olocausto. Non riescono più a far fronte all’ostilità degli studenti».

Ma come mai Molenbeek è diventato un ghetto «grigio, pessimista, ossessionato da ciò che è haram o halal»? Tutto è cominciato il 29 maggio 1967 quando il re dell’Arabia Saudita Faysal è stato accolto con tutti gli onori da re Baldovino. Nonostante dichiari apertamente nelle interviste che «Israele deve sparire dalla cartina del mondo», il Belgio in cambio di ricchi contratti petroliferi a prezzi scontati gli regala uno dei padiglioni più belli di una vecchia Expo, dandogli il permesso di trasformarlo nella Grande Moschea della capitale. I sauditi prenderanno anche il controllo del Centro islamico di Bruxelles. Il suo direttore nel 2012 definirà durante la preghiera il Belgio come «un paese di infedeli». I sauditi, spiega un vecchio agente dell’antiterrorismo, «sembravano voler prendere il controllo dell’islam in Belgio». Ci sono riusciti.

Minigonna e musica
Da quella prima visita, Riyadh inonda Bruxelles di copie del Corano e finanzia la costruzione di moschee e scuole coraniche. A Molenbeek vengono ad abitare predicatori dei salafiti e dei Fratelli musulmani, spiegando che la povertà è la punizione divina «per aver lasciato andare in giro le vostre figlie in minigonna». Condannano chi fa amicizia con gli infedeli, spiegano che l’Occidente perseguita i musulmani. Oggi l’islam ufficialmente è gestito nel paese dall’Esecutivo dei musulmani, lo stesso organismo che il 25 marzo 2016, tre giorni dopo gli attentati di Bruxelles, si è rifiutato di recitare la prima sura del Corano in omaggio alle vittime, perché «non possiamo pregare per i non musulmani». L’integrazione è un miraggio: l’imam della moschea Al Khalil, la più grande di Molenbeek, guida la preghiera da trent’anni e ancora non parla il francese.

Dopo ogni attentato, anche in Belgio, si fa partire il refrain del terrorismo che non c’entra niente con l’islam, ma per Alain Grignard, il commissario antiterrorismo più famoso del Belgio, è una stupidaggine. Salafiti e wahabiti hanno trasformato e influenzato l’islam, diffondendo l’odio verso l’Occidente, spingendo la comunità a chiudersi, promuovendo la retorica del “noi contro di loro”. Perciò, sostiene l’ex Fratello musulmano francese Farid Abdelkrim, anche se la radicalizzazione di un individuo avviene per strada o su internet, è in moschea che si sedimenta l’humus ideologico: «Quando un imam dice in moschea che la musica trasforma chi la ascolta in una scimmia, quando ogni venerdì parla dei nemici dell’islam, tuffa i fedeli in un mondo binario dove ci sono i musulmani e gli altri. I giovani escono dalla moschea, continuano la discussione tra loro, si rafforzano nella posizione di vittime e poi magari continuano la ricerca su internet a casa».

Il café de Beguines
È in questo clima che il barbuto Khalid Zerkani, il più grande reclutatore di Molenbeek, adesca i giovani nelle piscine comunali e nelle moschee estremiste di Luqman e Al-Nasr. Si pensa che da solo abbia convinto ben 70 persone a partire per la Siria. Tra i suoi pupilli ci sono Abdelhamid Abaaoud, che a sua volta è diventato uno degli uomini chiave della cellula franco-belga che ha compiuto le stragi di Parigi e Bruxelles, Chakib Akrouh, uno degli attentatori del 13 novembre, e Najim Laachraoui, che si è fatto saltare in aria all’aeroporto di Zaventem. È sempre Abaaoud, ucciso il 18 novembre 2015 a neanche 30 anni in un raid a Saint-Denis, che ha influenzato Omar Mostefai, il terrorista del Bataclan. Anche i fratelli Abdeslam sono suoi amici e parlano con lui via skype all’interno del café de Beguines, che i due hanno comprato a due passi dal municipio di Molenbeek. Il bar è frequentato anche da Mohamed Abrini, «l’uomo col cappello».

Gli ingressi della piscina comunale
Se tutti questi personaggi si sono affiliati all’Isis, lo Stato islamico non ha inventato nulla. Sono solo gli ultimi arrivati a Molenbeek. Nel quartiere sono stati accolti Hassan el Haski, tra gli ideatori degli attentati di Madrid del 2004, Tarek Maaroufi, uno dei preparatori dell’attacco sventato ai mercatini di Natale di Strasburgo nel 2000, Mehdi Nemmouche, il killer del museo ebraico della capitale, Ayoub el Khazzani, che nel 2015 è stato neutralizzato sul treno ad alta velocità Amsterdam-Parigi prima di poter usare il suo fucile d’assalto. E ancora, a Molenbeek hanno diffuso il verbo del jihad, generosamente mantenute dai sussidi statali, due donne sulfuree: Fatima Aberkan e Malika al Aroud.

La prima ha trasformato la sua casa in un’agenzia viaggi per la Siria, la seconda, soprannominata “Vedova nera”, è famosa per avere sposato in seconde nozze Abdessatar Dahmane, il tunisino che è riuscito ad assassinare il 9 settembre 2001 il comandante afghano Shah Massoud, spianando la strada all’attentato delle Torri gemelle. Malika scriverà anni dopo nel suo Le Soldats de lumière: «Quest’uomo, questo eroe, era mio marito. Ne sono fiera». Il testo è stato ritrovato nella libreria personale della compagna di Amedy Coulibaly, l’assassino dell’Hyper Cacher di Parigi. Bazzicava infine Molenbeek anche Fouad Belkacem, portavoce e reclutatore per Sharia4Belgium, condannato nel 2015 a dodici anni di carcere.

Com’è possibile che la politica in trent’anni non si sia accorta di questo enorme laboratorio del jihad? Philippe Moureaux, borgomastro del quartiere per vent’anni fino al 2012, può vantare nel suo curriculum politico posti da ministro, vicepremier e vicepresidente del partito socialista. Molenbeek è stato il suo feudo, spiega il senatore liberale Alain Destexhe: «In vent’anni ha regnato una sorta d’omertà. Chi tentava di romperla veniva trattato come un islamofobo. Al cuore di questo sistema c’era Moureaux, che alimentava un clima di terrore intellettuale verso chi osava protestare. Aveva capito da subito che il futuro del socialismo bruxellese passava per gli immigrati, che sarebbero diventati simbolicamente il nuovo proletariato». Il borgomastro è accusato di aver chiuso gli occhi su tutto pur di guadagnare consensi. «Ha fatto di questi migranti naturalizzati belgi un battaglione elettorale, una macchina da voti», ricorda un suo stretto compagno di viaggio. Emblematica del suo governo resterà la decisione di dividere gli ingressi alla piscina comunale: uno riservato ai maschi, l’altro alle femmine.

A un anno dagli attentati forse qualcosa sta cambiando. Oggi l’intelligence belga monitora 6.188 persone solo a Molenbeek e nell’ultimo anno ha effettuato migliaia di perquisizioni nel quartiere. Il ministro dell’Interno, Jan Jambon, ha promesso di «ripulirlo». Ma certi tic rimangono. E le parole di Ahmed Khannouss, attuale vicesindaco di Molen, non lasciano presagire niente di buono: «Pensavamo che queste pratiche fossero finite con la Seconda guerra mondiale, quando le persone furono prese di mira per la loro religione». L’affascinante negazione continua.

@LeoneGrotti

Foto Ansa

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