Dirigente della Levi’s critica la dad. Costretta a dimettersi

Jennifer Sey, brand president dell'azienda di moda, chiedeva la riapertura delle scuole chiuse per la pandemia in California. È finita ostracizzata dai colleghi e attaccata come razzista. «Ora sono libera»

Proteste per la riapertura delle scuole in California nel settembre 2020 (foto Ansa)

Ci si può dimettere arrivati a un passo dalla vetta, dopo una carriera di promozioni ottenute per il propio ottimo lavoro nell’azienda dei propri sogni? Jennifer Sey indossava i jeans Lev’s quando nel 1986 andò a Mosca con la Nazionale americana di ginnastica per partecipare ai Goodwill Games. Era la campionessa degli Stati Uniti in carica, e racconta che per lei esibire quei pantaloni in Unione Sovietica voleva dire ricordare a tutti la forza e la libertà del suo paese.

«Smetti di parlare della faccenda della scuola»

Nel 1999, appena trentenne, è entrata alla Levi’s per occuparsi di marketing. Da allora ha visto cambiare la moda diverse volte fino a che, nel 2020, è diventata vicepresidente esecutivo e global brand president dell’azienda, prima donna a ricoprire quel ruolo. Poi, a un passo dalla vetta, pochi giorni fa, Jennifer Sey si è dimessa. «Nell’autunno del 2021, durante una cena con il Ceo dell’azienda, mi è stato detto che ero sulla buona strada per diventare io il prossimo Ceo della Levi’s: il prezzo delle azioni era raddoppiato sotto la mia guida e le entrate erano tornate ai livelli pre-pandemia. L’unica cosa che mi ostacolava, disse, ero io. Tutto quello che dovevo fare era smettere di parlare della faccenda della scuola». 

La “faccenda della scuola” sono le critiche che Sey si è permessa di fare alla decisione di mandare in dad le classi durante la pandemia in California. In diversi paesi del mondo la chiusura delle scuole è stata una delle prime misure adottate dai governi per tentare di fermare il Covid. Il tempo ha raccontato che se da una parte la misura ha aiutato a circoscrivere in parte l’aumento dei contagi, dall’altra sono molti i danni – soprattutto psicologici – che gli studenti hanno subito.

Critichi la chiusura delle scuole? Allora sei razzista

Con eccellente realismo, a inizio pandemia Jennifer Sey ha cominciato a chiedersi «pubblicamente se le scuole dovessero essere chiuse. Sentivo – e sento tuttora – che politiche così draconiane avrebbero causato più danni a chi era meno a rischio (i bambini, ndr) e che questa situazione sarebbe pesata soprattutto sugli studenti più svantaggiati delle scuole pubbliche, i quali hanno più bisogno della sicurezza e della routine scolastica».

Jennifer ha fatto quello che si fa in democrazia quando non si è d’accordo con le decisioni politiche: ha posto domande, scritto lettere ed editoriali sui giornali, ha parlato in pubblico e in tv, organizzato manifestazioni e chiesto sui social network che le scuole venissero riaperte. Solo per questo «sono stata condannata per avere parlato. Mi hanno chiamata razzista – una strana accusa dato che due dei miei quattro figli sono neri – eugenista, teorica della cospirazione di QAnon». Più lei chiedeva di di smetterla con la didattica a distanza, più dall’azienda, racconta lei stessa in un lungo post su Common Sense, la invitavano a smettere di parlare.

I dati sulla scuola

Sey parlava in quanto madre, rispondeva, non in quanto dirigente della Levi’s, carica peraltro assente dalla sua bio su Twitter. Ma prima l’ufficio legale dell’azienda, poi quello delle risorse umane, poi un membro del cda e infine il Ceo le hanno chiesto di non parlare più dell’argomento. Jennifer citava i dati disastrosi dell’apprendimento via computer degli studenti californiani, e quelli che dimostravano come a scuola fosse difficile per un bambino ammalarsi.

Il problema non era ovviamente che un dirigente di una grande azienda esprimesse le proprie idee su temi “scottanti”, dato che a nessuno dei colleghi di Sey che twittavano la necessità di estromettere Trump dalle elezioni era stato detto niente, né tantomeno a lei quando ha «condiviso il mio sostegno a Elizabeth Warren alle primarie democratiche e la mia grande tristezza per gli omicidi istigati dal razzismo di Ahmaud Arbery e George Floyd». E allora, quale era il problema?

Critichi la scuola a distanza? Sei contro la scienza

Quando nell’ottobre del 2020 è chiaro che le scuole di San Francisco non riapriranno, Jennifer chiede all’azienda un momento per discuterne tra loro: «Spesso prendiamo posizione su questioni politiche che hanno un impatto sui nostri dipendenti; abbiamo parlato dei diritti dei gay, del diritto di voto, della sicurezza delle armi e altro ancora». Ma delle decisioni del governo sulla scuola non si può parlare, l’azienda respinge la richiesta dicendo che la cosa avrebbe imbarazzato i dirigenti con i figli nelle scuole private della città. Jennifer continua a parlarne, però, fino a trasferire la famiglia a Denver per riuscire a mandare di nuovo i propri figli a scuola.

La sua storia viene raccontata su tutti i media americani, e dopo una sua apparizione come ospite su Fox News inizia la tempesta. Vengono ripresi i commenti dei dipendenti della Levi’s che la accusano di essere contro la scienza, contro i grassi (perché aveva retwittato uno studio sulla correlazione tra obesità e cattive condizioni di salute), contro i trans (perché aveva scritto in un tweet di non cambiare  la “Festa della mamma” con la “Festa della nascita” perché avrebbe escluso le mamme adottive e le matrigne), e naturalmente di essere razzista, dal momento che le scuole di San Francisco sono piene di ragazzi di colore e a quanto pare a lei non importava che morissero di Covid, dato che voleva rimandarli a scuola.

«Puoi diventare Ceo, ma smetti di parlare»

Una volta uscita fuori la carta del razzismo, il gioco è fatto: il responsabile della divisione per la Diversità, l’Equità e l’Inclusione le chiede di fare un “tour delle scuse” dal momento che la sua posizione sulla riapertura delle scuole dimostrava come lei non fosse «amica della comunità nera della Levi’s». Jennifer si rifiuta, ma ormai il danno è fatto.

Non importa che pochi anni prima le fosse stato chiesto di essere lo «sponsor esecutivo del Black Employee Resource Group da due dipendenti neri. Il fatto che avessi combattuto per i bambini per anni non aveva importanza. Che stessi citando dei semplici fatti non aveva importanza. Il capo delle risorse umane mi ha detto personalmente che anche se avevo ragione sulle scuole, che era classista e razzista che le scuole pubbliche rimanessero chiuse mentre le scuole private erano aperte, e che probabilmente avevo ragione su tutto il resto, non avrei comunque dovuto dirlo così. E io continuavo a pensare: perché non dovrei?».

I troll su Twitter: «Boicottare Levi’s»

Poi la famosa cena del 2021, l’offerta della promozione definitiva in cambio del suo silenzio sulla “faccenda della scuola”. Jennifer Sey entra in un incubo. «Troll anonimi su Twitter hanno cominciato a chiedere alla gente di boicottare la Levi’s fino a che non fossi stata licenziato. Anche alcuni miei fan di quando ero ginnasta lo hanno fatto. Hanno chiamato il numero dell’azienda dedicato alle questioni etiche e inviato email di protesta. Ogni giorno, un dossier dei miei tweet e di tutte le mie interazioni online veniva inviato al Ceo dal responsabile della comunicazione aziendale. In una riunione del gruppo dirigente esecutivo, il Ceo ha detto davanti a tutti che mi stavo “comportando come Donald Trump”».

Nell’ultimo mese il Ceo della Levi’s dice a Jennifer che non può più rimanere, è diventata «insostenibile». Le offrono una buonuscita da un milione di dollari, che lei rifiuta perché avrebbe dovuto firmare un accordo di riservatezza sul motivo per cui ero stata licenziata.

«Oggi la Levi’s è in trappola»

«Non ho mai voluto essere una contrarian, non mi è mai piaciuto combattere», dice, ricordando il paio di jeans regalati alle ginnaste russe nel 1986, quasi un simbolo «di ciò che era buono e giusto di questo paese». La sua azienda, scrive, oggi «è in trappola, cerca di compiacere la folla e mette a tacere qualsiasi dissenso all’interno dell’organizzazione. In questo è come tante altre aziende americane: tenute in ostaggio da ideologi intolleranti che non credono nell’inclusione genuina o nella diversità».

È l’altra faccia del pensiero woke, paradossalmente teso a compiacere il potere. Se il governo ha deciso che chiudere le scuole è la soluzione alla pandemia non bisogna criticarlo troppo forte. E chi lo fa è un no vax, o quasi: antiscientifico, dunque dalla parte sbagliata della storia, dunque razzista, transfobico, contro le minoranze.

«Negli oltre due decenni trascorsi in azienda, ho preso molto sul serio il mio ruolo di manager. Ho aiutato a fare da mentore e guidare i giovani dipendenti promettenti che sono diventati dirigenti. Alla fine, nessuno è rimasto con me. Nessuno ha detto pubblicamente di essere d’accordo con me, o anche di non essere d’accordo con me sostenendo però il mio diritto di dire ciò in cui credo. Mi piace pensare che molti dei miei ex colleghi sappiano che questo è sbagliato. Mi piace pensare che siano rimasti in silenzio perché temevano di perdere la loro posizione sul lavoro o di incorrere nell’ira della folla. Spero che, col tempo, lo riconoscano».

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