Il “divismo teologico” di Hans Küng

È morto a 93 anni lo studioso svizzero leader mediatico del "movimento di riforma" della Chiesa. Non è inutile riflettere sulla sua accanita militanza antiromana

All’età di 93 anni, nella sua casa di Tubinga, è morto Hans Küng, il teologo a cui la Santa Sede aveva tolto la licenza di insegnante ecclesiastico (anche solo per saggiarne lo stile, è ancora interessante leggere la delicata nota della Congregazione per la dottrina della fede), ma che per il suo dissenso è stato per decenni l’idolo mediatico del cosiddetto “movimento di riforma”. Molto si va leggendo in queste ore sull’eredità del teologo svizzero, ma forse non è inutile riflettere ancora su quello che il filosofo cattolico Emanuele Samek Lodovici, già nel ’71, identificò come caso emblematico di «divismo teologico».

L’opera in cui è venuta maggiormente a galla l’acredine nutrita da Hans Küng per la Chiesa di Roma è Perché un’etica mondiale. Un libro-intervista del 2002 a cura del giornalista tedesco Jürgen Hoeren tradotto in italiano nel 2004 dalla Queriniana, storica editrice cattolica bresciana.

Il papato: da roccia a macigno

Forse perché la forma dell’intervista è più libera, sta di fatto che in Perché un’etica mondiale, Küng si è sentito libero di squadernare apertamente, e più chiaramente che altrove, la sua sistematica contestazione al magistero della Chiesa su temi quali aborto, eutanasia, fecondazione artificiale, sacerdozio delle donne, infallibilità del Papa, culto di Maria. Rispondendo alle domande di Jürgen Hoeren, lo spirito “antiromano” di Küng si fa letteralmente incontenibile, arrivando a imputare direttamente alle encicliche papali l’aumento dello spirito antireligioso della società:

«Oggi in effetti non c’è un sentimento antireligioso come un tempo, se esso non viene ridestato artificialmente dalle encicliche papali».

Oppure indicando nel papato il vero e unico freno all’unità della Chiesa (l’audacia di certo non gli è mai mancata):

«Ciò che viene avvertito come discriminante è la struttura ufficiale autoritaria della Chiesa cattolica. Il papato nella sua attuale costituzione continua a rappresentare il grande ostacolo: non una roccia dell’unità, ma il grande macigno sulla via dell’unità».

Togliere il potere a Roma

Sembra incredibile pensare che sui libri di Hans Küng si siano formate generazioni di sacerdoti. O anche soltanto che ieri, dall’account ufficiale dell’Accademia Pontificia Accademia per la Vita, potevano leggersi tweet come questo: «Scompare davvero una grande figura nella teologia dell’ultimo secolo, le cui idee e analisi devono fare sempre riflettere la Chiesa, le Chiese, la società, la cultura».

Nel libro-intervista, dopo aver ribadito che «nelle questioni dell’ecumenismo il papato è il grande ostacolo», Küng aggiunge che la Curia romana ha impedito un’infinità di cose, «in primo luogo, che il Concilio potesse funzionare come propriamente si voleva, e potesse giungere a decisioni cariche di futuro, non solo in materia di comunione eucaristica, ma anche in questioni come la contraccezione o il celibato». Se quelli che Küng elenca sono chiaramente i suoi “desiderata” (le «decisioni cariche di futuro»), quando, immediatamente dopo, Küng scrive che «c’è bisogno di uno spostamento del potere da questo sovrano assoluto di Roma alle Conferenze episcopali nazionali», non è difficile intuire a cosa servirebbe l’auspicata maggior collegialità, di cui si dibatte da anni e a cui è dedicato il Sinodo indetto per il 2022.

È difficile non collegare, ad esempio, la reazione di una grossa parte del clero tedesco al responsum in tema di benedizioni delle unioni omosessuali all’agenda politico-teologica di Hans Küng: la rivolta organizzata a cui si è assistito in queste settimane, con un cortocircuito autoevidente (e un po’ imbarazzante), è figlia di quel pensiero kunghiano di cui oggi Alberto Melloni e monsignor Paglia tessono le lodi.

Per Pio XII e Giovanni Paolo II solo disprezzo

L’attacco di Küng al papato non è stato generalizzato. Su Giovanni XXIII la sua opinione è infatti assai più benevola rispetto a quella verso i papi successivi. Se quindi «nel caso dell’Olocausto, Pio XII ha fallito» poiché «per lui gli ebrei erano del tutto privi di importanza» – così scrive Küng –, e se San Giovanni Paolo II «è corresponsabile dell’esplosione demografica e […] della conseguente miseria soprattutto dell’Africa e dell’America latina» (un linguaggio che monsignor Bruno Forte in una intervista a Vatican Insider derubrica a innocenti «punzecchiature costruttive» fatte per «realizzare lo spirito del Concilio Vaticano II»), papa Roncalli, invece, avrebbe manifestato tutt’altro paradigma ecclesiale.

Tutta da leggere, nella sua fanciullesca ingenuità, è la motivazione di questa disparità di trattamento. Quando Jürgen Hoeren chiede a Küng come mai il duomo di Basilea fosse stracolmo per la visita del Dalai Lama benché egli «abbia detto cose semplicissime e ovvie: siate tolleranti, l’interno è più importante dell’esterno, l’essere è più importante dell’apparire», Küng risponde col solito riflesso (pavloviano) antiromano:

«Dietro al papa molti vedono soltanto il Vaticano, l’enorme potenza della Chiesa cattolica. Un potente e autoritario principe della Chiesa […] prende una posizione totalmente diversa da quella di un povero, impotente monaco religioso che predica semplicemente la compassione e l’amore. Ma se lei confronta papa Giovanni XXIII con il Dalai Lama allora le differenze non sono più così grandi. In Giovanni XXIII la maggior parte degli uomini aveva dimenticato che egli era il capo di questo Vaticano».

«Nessuno meglio di me»

L’ego straripante del teologo svizzero (lo stesso che in una puntata di Otto e mezzo lo portò a equiparare, indifferente allo sguardo imbarazzato di Socci e Ferrara, la sharia islamica al diritto canonico) ha avuto un ruolo nella sua percezione dei fenomeni. Spesso è sembrato che Küng si sentisse investito di una missione, e il fatto che si avvertisse come incaricato di un mandato imprescindibile – perché l’unico in grado di compierlo – emerge chiaramente in molti passaggi di Perché un’etica mondiale. Al giornalista che gli chiede se è sempre stato un «combattente solitario», il teologo risponde così:

«Combattente solitario io divenni là dove vi venivo costretto. […] Ho avuto l’impressione che dopo l’Enciclica Humanae vitae del 1968, dopo il no pontificio alla regolazione “artificiale” delle nascite, qualcuno dovesse affrontare il problema dell’infallibilità papale. Non conoscevo nessuno che potesse farlo meglio di me. […] C’è relativamente poca gente che conosce dall’interno la teologia insegnata a Roma, che contemporaneamente abbia la capacità di presentarla in maniera comprensibile e di lumeggiarla criticamente».

Il «divismo teologico» di cui parlava Emanuele Samek Lodovici in Studi Cattolici sembrerebbe qui raggiungere la sua vetta. Ma c’è di più.

«Ho preso tutto sulle mie spalle»

In alcuni passaggi del libro-intervista edito dalla Queriniana, il teologo svizzero sembra addirittura identificarsi con la persona di Gesù Cristo, convinto di vedere nelle proprie posizioni teologiche una proiezione perfetta di quella che sarebbe stata la condotta del Figlio di Dio. Nel capitolo intitolato “Potenza della preghiera” Küng scriveva:

«Le questioni dell’infallibilità e della regolazione artificiale delle nascite erano per me questioni di coscienza. Non potevo agire diversamente da come ho agito […] se non avessi riconosciuto ciò come la volontà di Dio non se ne sarebbe fatto nulla».

Per poi aggiungere subito, appropriandosi delle parole con cui il Messia parlava dei farisei (Matteo 23):

«Lo stesso Gesù, che proprio non aveva i migliori rapporti con i gerarchi del suo tempo, anzi ha resistito loro faccia a faccia, sarebbe stato contro questo tipo di infallibilità gerarchica. Sicuramente egli avrebbe trovato – cosa che il papa non ha trovato nell’enciclica sulla pillola Humanae vitae – che questo scritto dottrinale pontificio “pone gravi pesi sulle spalle degli uomini, pesi che essi non possono portare”».

Küng chiude la risposta al giornalista identificandosi esplicitamente con lo sguardo di Gesù verso le folle (Matteo 9,36):

«Queste affermazioni di Gesù furono e sono per me indicative. Quando mi resi conto che una gerarchia non si mostrava aperta a una correzione della dottrina, un’altra frase divenne la più importante di tutte: “Ho compassione per il popolo”. Per me soltanto non mi sarei preso tutto sulle spalle».

L’amico-rivale Joseph Ratzinger

Per tutta la vita Küng ha affrontato il problema della morale cattolica in un modo semplicissimo: chiedendo ad essa di fare un passo indietro. Scrive in Perché un’etica mondiale:

«Naturalmente sarebbe richiesto proprio alle chiese di non prendere semplicemente la posizione, rigorosamente giusta, dell’immutabilità, dell’immobilità e del non adattamento. Sarebbe compito delle chiese, anche in questioni come la contraccezione, l’aborto e l’eutanasia, non offrire soluzioni unilaterali, bensì soluzioni mediatrici: una via ragionevole del centro tra libertinismo e rigorismo!».

Come per tante altre questioni, anche sulla sua idea di “etica minima” (l’ultimo cavallo di battaglia del teologo svizzero, da almeno due decenni largamente sponsorizzato da riviste e think tank di ogni genere) cala il giudizio chiaro e netto dell’amico-rivale Joseph Ratzinger, il quale mise subito in guardia dal pragmatismo utopico di un’etica globale così concepita. In La Chiesa, Israele e le religioni del mondo (San Paolo, 2000) Joseph Ratzinger scrive:

«L’incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancora più sicura di sé. La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l’uomo, ma lo consegna al calcolo dell’utile, privandolo della sua grandezza».

Mentre da lassù per Hans Küng sarà finalmente tutto più chiaro, per la Chiesa, oggi, riflettere sulla sua teologia può essere utile per tenersi a distanza da certi esiti infausti che sembrano minacciarla gravemente.

Foto Ansa

Exit mobile version